La Sistina e la bellezza dell’umanità salvata in Cristo

Monsignor Timothy Verdon, docente di storia dell’arte alla Stanford University e direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, è autore del recente «La Cappella Sistina Cuore e simbolo della Chiesa» (Edizioni Musei Vaticani – Libreria Editrice Vaticana): quattro volumi, arricchiti da uno straordinario apparato iconografico, che costituiscono un pregevole unicum nella vastissima produzione di studi dedicati alla Cappella più nota e ammirata della cristianità. Non sono libri di storia dell’arte, almeno in senso stretto: insieme a un ampio e accurato commento delle immagini essi infatti propongono le fonti bibliche dei programmi degli affreschi, ponendo al centro dell’attenzione la Parola di Dio.

 

«Molti – esordisce Verdon in questa conversazione con Vatican Insider – hanno scritto della Cappella indagando le fonti iconografiche ma, sebbene la Parola di Dio sia il punto di partenza della Sistina, nessuno, sino ad oggi, aveva preso in considerazione e richiamato con estese citazioni sia i testi biblici illustrati con grandissima precisione dagli affreschi sia i rimandi ai brani correlati. Questa attenzione riservata alla Parola di Dio vuole mettere il lettore moderno, spesso assai digiuno di conoscenza biblica, nella condizione di capire immagini originariamente concepite per esperti della Sacra Scrittura, uomini che ben conoscevano il testo biblico e che erano versati anche nei commenti e nelle chiose che la tradizione millenaria aveva elaborato».

 

Lei afferma che il Giudizio universale di Michelangelo – affrescato a partire dal 1536, l’opera ultima, ma anche «definitiva» poiché l’orizzonte escatologico che essa illustra necessariamente colora la lettura dei programmi precedenti – vuole anticipare la bellezza dell’umanità salvata in Cristo. È questo anche il messaggio dell’intera Cappella Sistina? 

«Sì. Nella Sistina vi sono quattro grandi programmi di immagini realizzate dal 1480 e il 1540: ognuno di questi programmi è stato pensato in tempi diversi, da umanisti diversi e per papi diversi, ma ognuno è interamente basato sulla Bibbia e appare in stretta coerenza con gli altri. La Sistina è un caso quasi unico nella storia dell’arte cristiana sia per la vastità della superficie affrescata con temi biblici, sia perché mostra un progetto che prende forma gradualmente, nel corso del tempo, e si mostra come unitario. Nella Sistina si svela l’intera storia della salvezza. E il fulcro è Cristo: è Lui che spiega il confronto tra l’Antico e il Nuovo Testamento negli affreschi quattrocenteschi, che li lega alla Genesi illustrata nella volta e al Giudizio universale perché in Lui il Padre rivela il mistero di un piano salvifico che si dispiega attraverso i millenni, il cui scopo è appunto ricondurre tutte le cose in cielo e sulla terra a Lui, Cristo, come unico Capo (Ef 1,9-10). Il Cristo del Giudizio universale, giovane e bello, giudice della storia, è il punto unico di convergenza degli eventi narrati negli altri affreschi della Cappella. Nella Sistina il papato è a servizio dell’amore misericordioso di Dio: l’uomo peccatore ha bisogno del perdono di Dio e la Sistina mostra il papato come l’istituzione attraverso la quale giunge all’umanità il perdono di cui Cristo ha dato a Pietro e ai suoi successori le chiavi. In un’epoca nella quale l’autorità papale era messa in forte discussione all’interno della Chiesa, in cui molti auspicavano un governo collegiale della Chiesa attraverso un permanente concilio dei vescovi, i diversi Papi – committenti degli affreschi – hanno voluto che nei dipinti fosse ribadito il primato petrino».

 

 

In quali affreschi questo proposito appare con maggior evidenza?

«Nella Sistina, dove viene compiuta una lettura altamente ecclesiale e specificamente papale dei testi biblici, sono particolarmente esemplari due opere: la prima è la Punizione di Core, Datan e Abiram di Sandro Botticelli che illustra la rivolta contro Mosè e Aronne cappeggiata da tre Leviti (Core, Datan e Abiram): l’episodio riguarda il tentativo di alcuni ministri minori di impossessarsi delle funzioni e prerogative dell’alto sacerdote e del rifiuto di Dio di essere servito da persone non scelte da Lui. Sull’arco trionfale alle spalle dei personaggi campeggia una iscrizione latina (che rimanda alla Lettera agli Ebrei) scritta in lettere d’oro: «Nessuno attribuisca a se stesso l’onore, se non è chiamato da Dio, come fu Aronne». A parte la firma del Perugino sotto il Battesimo di Gesù e i tituli nel cornicione sopra gli affreschi, queste sono le uniche parole scritte dell’intero programma della Cappella. L’iscrizione vuole essere un esplicito monito rivolto a quanti mettevano in discussione l’autorità del papa. La seconda opera, che non a caso si trova proprio di fronte a quella di Botticelli, è la Consegna delle chiavi del Perugino: si tratta del momento narrato in Matteo 16, nel quale il Salvatore dice all’apostolo: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del Regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto» (Mt 16, 18-19). Con queste due opere viene difesa e ribadita in modo inequivocabile l’autorità del Papa: è a Pietro e ai suoi successori che Cristo ha consegnato le chiavi del perdono: nessuno si assuma questo onore se non è chiamato da Dio».

Il perdono dei peccati è centrale anche nella volta affrescata da Michelangelo tra il 1508 e il 1512.

«Certamente. Collocato al centro della parete ovest spicca, proprio sopra l’altare, l’imponente figura del profeta Giona, il quale – lo ricordiamo – non riusciva ad accettare la misericordia del Signore per gli abitanti di Ninive. Il profeta affrescato da Buonarroti, con un movimento mutuato dal Laocoonte, si contorce per guardare indietro, stupito: vede il Creatore all’inizio della creazione e, guardando, capisce che il Signore è l’autore di tutte le cose e appunto come autore non sopporta di perdere la meravigliosa opera delle Sue mani: Giona comprende che, sin dall’inizio del mondo, il proposito del Creatore è stato salvare tutte le sue creature. Comprende la bontà e la misericordia del Signore. Creazione e redenzione sono fasi inscindibilmente interconnesse. Le immagini del Giudizio universale (nel quale la figura di Cristo rappresenta l’uomo perfetto descritto nella Bibbia), così come le immagini di tutta la Sistina vogliono mostrarci come dobbiamo e possiamo essere: la bellezza degli affreschi è un anticipo della nostra bellezza, la bellezza dell’uomo perdonato che trova nuova vita in Cristo».

 

La bellezza dell’essere umano appare in principio nella Creazione di Adamo e nella Creazione di Eva.

«Osservando la Creazione di Adamo non si può non notare che il corpo dell’uomo, di straordinaria forza e potenza, rispecchia con precisione il corpo di Dio, ricoperto da vesti. Adamo ha la medesima corporatura del suo Creatore, è letteralmente «a immagine e somiglianza di Dio». E lo sguardo che passa tra l’uomo e Dio è pieno di intelligenza ma anche e soprattutto di amore. Là dove Dio rivolge ad Adamo uno sguardo di infinito amore, Adamo similmente rivolge a Dio uno sguardo di infinito «desìo», di desiderio (e la medesima dinamica d’amore appare nella Creazione di Eva). Si coglie quindi una specularità pur nella distinzione delle condizioni: Dio rimane Dio e l’uomo resta uomo, ma è un uomo bello come Dio è bello».

 

Quale significato riveste la grande moltitudine di corpi, di carne, che affolla il Giudizio universale?

«Quell’insieme di corpi nudi e muscolosi, che fu motivo di scandalo, si deve molto probabilmente al fatto che Michelangelo ebbe modo di studiare, forse offertagli dal pontefice stesso, una medaglia coniata nel Quattrocento da Bertolo di Giovanni in onore di un vescovo della famiglia Medici. Su una faccia della medaglia compare un’immagine del giudizio nel quale si vede Cristo in cielo, a torso nudo, affiancato da angeli recanti gli strumenti della Passione e altri che suonano trombe mentre in basso i morti, tutti nudi, vengono aiutati dagli angeli a uscire dai sepolcri. Sull’altra faccia della medaglia compare una scritta «Et in carne mea videbo Deum salvatorem meum» (Ed io, nella mia carne, vedrò Dio, mio salvatore): «in carne mea» è una espressione tratta dal libro di Giobbe così come appare nella Vulgata. Oggi i biblisti danno una diversa lettura del testo ebraico, ma ai tempi di Michelangelo si usava ancora la traduzione «in carne mea» di san Girolamo. Michelangelo, anche basandosi su questa medaglia e sulla sua composizione, mostra l’uomo che, con tutto se stesso, con la sua carne, non solo con il suo spirito, vedrà il Salvatore. Con quel groviglio di corpi, di carne nuda, il Giudizio proclama la verità della risurrezione della carne. Se l’obiettivo della Sistina è mostrare la bellezza dell’essere umano purificato, perdonato dai propri peccati, allora tutto ciò si dovrà manifestare un giorno nel gioioso risorgere dell’essere umano tutto intero».

 

«La maggior parte delle immagini della Cappella «traducono» i contenuti di testi specifici della Bibbia. Ma le immagini, come ogni forma di traduzione, aggiungono qualcosa», lei scrive. Le immagini non hanno carattere accessorio, ornamentale, non si limitano ad accendere emozioni epidermiche. 

«Nel cristianesimo l’immagine possiede un’importanza infinitamente maggiore di quella assegnatale da altre religioni storiche nelle quali invece svolge una funzione esclusivamente narrativa ed istruttiva. Nel cristianesimo l’immagine va al cuore stesso della fede: le parole ci accompagnano mentre siamo in questa vita, nel mondo che conosciamo, ma quando il mondo finirà e ci troveremo insieme davanti al Signore non ci saranno più le Scritture. Il cristianesimo ha concepito l’eternità come visione beatifica. L’immagine che già ora traduce la Parola in visione anticipa in certo modo l’esperienza definitiva. Nel prologo di Giovanni si legge: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria…» (Gv 1,14). Dio, che nell’Antico Testamento è invisibile, nel Nuovo Testamento vuole essere visto in Cristo: «Chi ha visto me ha visto il Padre» dice Gesù a Filippo (Gv 14,9). In una religione nella quale Dio si fa uomo di carne per essere visto, toccato, percepito dai sensi (come scrive Giovanni nell’incipit della sua Prima lettera), l’immagine, ma anche l’opera scultorea o altre espressioni artistiche che fanno appello ai nostri sensi, ci portano addirittura in qualche modo più vicino all’esperienza definitiva. Ciò non significa che le parole non siano necessarie: lo sono, ovviamente. Ma sarebbe un errore svalutare l’immagine, considerandola una mera «traduzione», un semplice ornamento dal carattere accessorio, un di più piacevole ma incapace di svelarci qualcosa del mistero di Dio».

 

11 Maggio 2018 | 12:30
Tempo di lettura: ca. 6 min.
arte (74), Sistina (2)
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