Ticino e Grigionitaliano

I commenti al Vangelo di domenica 2 luglio

Calendario Romano XIII Domenica del tempo Ordinario

I libri si leggono, le persone si amano

di Dante Balbo*

Tutte le domeniche il sacerdote o il diacono si avvicinano al leggio posto accanto all’altare e proclamano il vangelo. Siamo abituati ad ascoltarlo e spesso le parole che sentiamo sono note, come il grano e la zizzania, il buon samaritano, l’angelo Gabriele che visita la casa di Maria. Prima del Vangelo ascoltiamo altre letture e in particolare le lettere di San Paolo, che non era nemmeno uno dei dodici e fu prescelto dal Signore con una manifestazione molto particolare sulla via di Damasco, dove andava a perseguitare i membri di una nuova setta che minacciava il giudaismo puro. In questa 13esima domenica del Tempo Ordinario, nella lettera ai Romani, l’apostolo delle genti, suggerisce una cosa che mette in crisi il nostro ascolto domenicale del Vangelo. Egli infatti dice che siamo battezzati e nel battesimo siamo sepolti con Cristo, morti con lui, per risorgere a vita nuova. Un rito, l’aspersione con acqua sul capo per tre volte, che nei primi secoli era una vera e propria immersione, come attestano i battisteri come quello di Riva san Vitale, e che sarebbe in grado di trasformare la nostra vita, di unirci a Gesù nella sua morte per risorgere con lui. Possiamo ignorare le affermazioni di San Paolo, oppure domandarci cosa significa partecipare alla morte di Gesù Cristo e alla sua risurrezione. L’unico capace di portarci nella sua realtà è Gesù, in modo straordinario e misterioso, perché risorto supera il tempo, lo spazio e può offrirsi sempre e sempre vincere la morte, non solo per sé ma per noi tutti, che accogliamo il dono del battesimo. Il Vangelo di ogni domenica certo è la versione scritta che ognuno degli evangelisti ha redatto per la sua comunità e per quelli che sarebbero venuti, ma è soprattutto una proposta di incontro, l’occasione di accogliere il Signore che parla. Anche per questo è un sacerdote o un diacono che proclama il vangelo, perché è in esso che Gesù parla realmente e efficacemente. Noi possiamo ignorarlo, o accoglierlo per quello che è Parola del Signore.

*Dalla rubrica televisiva Il Respiro spirituale di Caritas Ticino

Calendario Ambrosiano V Domenica dopo Pentecoste

Abbandonare il passato per aprirsi al mondo

di don Giuseppe Grampa

La prima qualifica dei discepoli di Gesù è «Uomini della Via», della strada. Anche Gesù ci è presentato nella prima riga del Vangelo odierno in cammino, ma non un cammino qualsiasi. Gesù è in cammino verso Gerusalemme. L’evangelista Luca lo dice con una espressione intensa: «Indurì il suo volto per andare verso Gerusalemme», in altre parole prese la ferma decisione, una decisione che segna il suo volto, contratto nella ferma determinazione di compiere la sua missione fino al dono della vita. E sulla strada vi sono tre incontri che fissano le condizioni per essere con Gesù. La prima condizione è non essere uomini del nido e della tana. O se vogliamo usare un’altra immagine analoga non essere uomini del grembo caldo e rassicurante. Si impara a volare solo lasciando la sicurezza del nido. Gesù ci invita a guardare avanti risolutamente senza nostalgie regressive. Al secondo interlocutore Gesù chiede d’esser libero non solo e non tanto dal legame filiale ma da quel complesso di abitudini e tradizioni che trasmesse appunto di padre in figlio possono rappresentare un legame paralizzante. Assistere il padre nel momento della morte, come vuole il secondo interlocutore di Gesù, comportava anche assicurarsi l’eredità paterna. Gesù, invece, vuole i suoi discepoli con le mani e le tasche vuote. E infine il terzo interlocutore vorrebbe volgersi indietro al complesso di legami, esperienze che costituiscono il suo passato, la sua casa. Di nuovo l’Evangelo chiede di guardare avanti, di non attardarsi nella nostalgia della propria storia. Di fronte alla crescente presenza in mezzo a noi di «altri», «sconosciuti», «stranieri» è facile la tentazione di rinchiudersi nel nido o nella tana di una identità rassicurante perché ereditata dal passato. Quanta paura, a causa di tante diverse alterità, di smarrire la nostra identità. Aprirsi all’altro vuol dire uscire da sé, appunto dal nido e dalla tana, l’altro come libertà dalla cura ossessiva per se stessi, il proprio mondo, le proprie cose per correre la grande avventura dell’incontro.

1 Luglio 2023 | 17:36
Tempo di lettura: ca. 3 min.
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