amoris laetitia

Stella: «Amoris laetitia e discernimento, ecco il compito dei preti»

«C’è bisogno di sacerdoti pienamente umani, cioè persone interiormente risolte, che hanno potuto riconoscere le proprie ombre e lavorare sui propri conflitti, che siano affettivamente e psichicamente stabili e sereni», perché «quando manca questa equilibrata umanità di fondo, il prete rischia di assumere posizioni di rigidità o di distanza, anche per il timore di non saper gestire le quotidiane sfide del ministero. L’insicurezza, infatti, si sposa sempre con una certa inflessibilità». Il cardinale Beniamino Stella, prefetto della Congregazione del Clero, spiega in questa intervista con Vatican Insider il compito certamente non facile che l’esortazione sul matrimonio e la famiglia affida ai sacerdoti. Chiamati ad accostarsi «alla vita delle persone non classificandole attraverso schemi ideologici o norme astratte, ma ascoltandole, interpretando la loro situazione concreta e il loro desiderio di Dio».

 

Eminenza, in questi mesi di discussioni sull’esortazione Amoris laetitia si è vivisezionato il documento, soprattutto in merito alla questione della possibile riammissione in alcuni casi dei divorziati risposati ai sacramenti, ma si è parlato poco della figura centrale del sacerdote. Perché?

«Penso che quanto rientra nella materia della fede ha sempre bisogno, da parte nostra, di ciò che chiamerei una «conversione dello sguardo». Cioè, non si possono guardare e interpretare le cose della fede e della vita della Chiesa con occhiali pregiudiziali o ideologici. Lo sforzo che dobbiamo fare è scrutare l’orizzonte più ampio in cui una singola affermazione o un intero documento si situa. Il Sinodo è stato convocato per incoraggiare la riflessione sulla bellezza della famiglia e sulla vocazione matrimoniale, anche alla luce di alcuni realtà socio-culturali e di nuove problematiche. Ridurre questo panorama a singole questioni, per quanto importanti, non è corretto. Le valutazioni divergenti, infatti, sono nate solo sull’aspetto riguardante la possibile riammissione ai sacramenti per i divorziati risposati, mentre Amoris laetitia è un documento che invita ad adottare la prassi del discernimento per accompagnare le famiglie ferite, che è tutt’altra cosa. In tal senso, si parla ancora poco del compito affidato ai sacerdoti, e richiamato anche dalla nuova Ratio Fundamentalis (le nuove linee guida sul sacerdozio, pubblicate nel 2016, ndr): essere uomini del discernimento, cioè che si accostano alla vita delle persone non classificandole attraverso schemi ideologici o norme astratte, ma ascoltandole, interpretando la loro situazione concreta e il loro desiderio di Dio, accompagnando i processi reali della loro vita e della loro fede, portandoli a sentire il bisogno di misericordia e di vivere il Vangelo».

 

Può spiegare che cosa significa fare «discernimentoˮ come chiede Amoris laetitia?

«Per riprendere un’immagine usata da Papa Francesco, direi che significa non rinchiudere la vita e la realtà nel «tutto bianco o tutto nero». Questo approccio rigido, alimentato dall’ideologia e dal legalismo, è insufficiente per «leggere» davvero l’esistenza nella sua complessità. Certo, è più facile chiudersi in una gabbia ed essere, così, protetti dai rischi e dai pericoli che vediamo intorno a noi; ma se prevale soltanto la paura rimaniamo immobili e, per quanto in alcuni momenti possa servirci, restare sempre nella sicurezza della gabbia alla fine significa non vivere più. Si comprende che alcuni vorrebbero evitare la fatica di cercare e di interpretare le cose in profondità, accontentandosi di soluzioni facili e comode; tuttavia, sia nella vita quotidiana che nella fede, ci accorgiamo che esistono molte «zone grigie», situazioni che non possono essere incasellate rigidamente nel «o bianco o nero. A proposito di Amoris laetitia e dei cosiddetti «dubia», il cardinale Gerhard Ludwig Müller, nella prefazione all’ultimo libro del filosofo Rocco Buttiglione, evidenzia proprio questa tensione tra l’oggettività della norma, che rimane fondamentale e illumina sulla verità del matrimonio, e «le situazioni esistenziali che sono molto differenti e complesse» e che, in certi casi, possono attenuare la colpa o comunque far emergere una sincera ricerca di Dio. Per evitare sia un facile adattamento allo spirito del relativismo che una fredda applicazione dei precetti, afferma il cardinale, «c’è bisogno di una particolare capacità di discernimento spirituale». Mi viene in mente il Concilio di Gerusalemme narrato negli Atti degli Apostoli: per risolvere una questione pratica della vita della Chiesa, gli Apostoli non fanno subito riferimento alla legge o alla tradizione, ma spalancano gli occhi e il cuore sul vissuto della grazia dello Spirito Santo. Un po’ come diceva il cardinale Canestri, un pastore venuto a mancare di recente: l’importante è stare nel fiume della Chiesa; se uno ci sta un po’ più a destra o un po’ più a sinistra è solo lecita varietà che non dobbiamo restringere in modo forzato. Ecco, penso che il discernimento è l’arte di vedere, con gli occhi della fede, come lo Spirito Santo si trovi spesso all’opera anche in situazioni di vita complesse o apparentemente lontane da Dio, per cogliere tutte le possibilità umane, spirituali e pastorali, rimanendo sempre «dentro il fiume»».

 

Amoris laetitia mette un carico considerevole di responsabilità sulle spalle dei sacerdoti. Sono formati e preparati per questo?

«Abbiamo davanti a noi una grande sfida che investe in particolare la formazione sacerdotale. Mi ha colpito molto, nel colloquio di Papa Francesco con padre Antonio Spadaro, pubblicato nel libro «Adesso fate le vostre domande», l’accenno ai piani di formazione sacerdotale che rischiano di educare con idee troppo chiare e secondo limiti e norme definite a prescindere dalle situazioni concrete della vita; abbiamo bisogno, invece, che il prete sia «uomo del discernimento». Ma per questo occorre puntare in modo speciale sulla formazione umana dei sacerdoti. Con la nuova Ratio Fundamentalis si è cercato di scoraggiare una formazione impiantata e organizzata con un accento, direi eccessivo e assorbente sul piano degli studi accademici o fondata su una spiritualità astratta, quasi esterna alla persona. C’è bisogno – se così posso dire – di sacerdoti pienamente umani, cioè persone interiormente risolte, che hanno potuto riconoscere le proprie ombre e lavorare sui propri conflitti, che si sono lasciati aiutare a integrare le proprie fragilità in un processo di maturazione integrale, che siano affettivamente e psichicamente stabili e sereni».

 

Che cosa accade se manca questo equilibrio?

«Quando manca questa equilibrata umanità di fondo, il prete rischia di assumere posizioni di rigidità o di distanza, anche per il timore di non saper gestire le quotidiane sfide del ministero. L’insicurezza, infatti, si sposa sempre con una certa inflessibilità. Un prete pienamente umano, invece, cammina in mezzo alla gente, si lascia commuovere dalle sue ferite, incoraggia le sue gioie e vive una cordialità del tratto che lo rende squisito nelle relazioni; accompagnando i fratelli, egli sarà sempre meno centrato su sé stesso e si preoccuperà, invece, di far arrivare a tutti la carezza di Dio e il profumo della sua grazia. Un prete così, non guarda gli altri dall’alto di una cattedra, ma, pienamente consapevole di essere lui per primo un peccatore perdonato, cammina sulla stessa barca dei fratelli e fa insieme a loro la traversata della conversione a Cristo. Con compassione e paterna vicinanza, egli saprà accogliere la storia di ciascuno, come un uomo che sa bene che ogni storia e ogni persona è diversa dalle altre, e che non esistono manuali o prontuari già fatti una volta. È un uomo che sa proporre una fede e una vita cristiana fatta di relazioni, più che di regole astratte».

 

Ha colpito che a Firenze, nel novembre 2015, Papa Francesco alla Chiesa italiana abbia indicato il modello del Don Camillo di Guareschi. Perché secondo lei l’ha fatto?

«Il convegno di Firenze è stato dedicato all’umanesimo cristiano, che non è un concetto astratto, ma un modello dell’essere uomini che possiamo contemplare in Gesù e realizzare grazie a lui. Anche se le storie di Guareschi e la figura di don Camillo sono abbastanza lontane nel tempo, e fotografano un contesto italiano che ormai non c’è più, il Papa ha voluto richiamare l’immagine «umana» di quel parroco: un uomo umile, per certi versi esuberante, che si definisce «povero prete di campagna», ma che sta in mezzo alla gente e si dedica interamente ad essa, mostrando forza, determinazione e coraggio profetico quando si tratta di difendere i più deboli, di educare, di intervenire nelle situazioni. Si tratta di una figura di prete direi «essenziale», che centra tutta la sua vita sacerdotale su Gesù. Come non ricordare la famosa scena del film «Don Camillo, Monsignore…ma non troppo», in cui il parroco dialoga con il Crocifisso, proprio subito dopo aver ricevuto la nomina di monsignore; nel colloquio, il Cristo smaschera con tenerezza qualche bugia di don Camillo, il quale, tra l’ironico e l’impacciato risponde: «Signore, avevo tanta voglia di rivedervi…». Una figura di prete dotata, quindi, anche di un sano umorismo, che lo aiuta a non «prendersi troppo sul serio» e, così, a restare profondamente umano. Insomma, non un «funzionario da sacrestia», ma un pastore che sa commuoversi e piangere per il popolo».

 

Che cosa vuol dire, allora, essere prete in una società come la nostra, sempre più secolarizzata?

«Anche questa situazione culturale ha bisogno di prudente e attento discernimento. Bisogna stare attenti alle generalizzazioni che, magari, partendo da una riflessione disfattista sulla realtà attuale, ci fanno volgere indietro e ci fanno diventare, come afferma Evangelii gaudium, «pessimisti scontenti e dalla faccia scura». Certo, oggi viviamo in un mondo secolarizzato, nel quale sono venute meno alcune certezze consolidate e sono profondamente mutati alcuni contesti ospitali e favorevoli per la trasmissione della fede. Tuttavia, anche questa può essere una benedizione».

 

Addirittura una benedizione?

«La storia ci insegna che quando il cristianesimo non ha dovuto né lottare né faticare per annunciare il suo messaggio, ha rischiato di diventare tiepido, di accomodarsi nella sicurezza sociale o, ancor peggio, di stringere legami ambigui col potere politico per mantenere la garanzia dei propri privilegi. Oggi, invece, abbiamo la possibilità di recuperare lo spirito profetico del Vangelo e di annunciare il suo messaggio alternativo e controcorrente; in un mondo che cambia velocemente, spesso segnato dall’incapacità di amarsi e di ascoltarsi, e che restringe la vita nella logica del consumismo e del mercato, il sacerdote può essere il testimone di una Parola nuova, capace di far riflettere le persone e di inaugurare stili e modelli di vita diversi. Per fare questo, direi semplicemente: dobbiamo ritornare a essere preti! Tornare cioè all’essenziale del ministero: offrire tempo alle persone perché possano trovare almeno uno spazio di ascolto e di dialogo, essere disponibili per le confessioni, pregare con la gente, essere testimoni di gioia, di servizio e di gratuità. Il nostro riferimento non può che essere il Vangelo: quando Gesù incontra le persone, stanche, ferite o cadute, poggia su di esse uno sguardo benedicente e amorevole, si commuove, se le prende a cuore e le rialza. Proprio questa, anche oggi, deve essere la missione di ogni sacerdote».

27 Novembre 2017 | 13:28
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