Internazionale

Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria: «Da 12 anni l'attesa di una Pasqua senza bombe»

di Cristina Uguccioni

È un Paese ferito la Siria: ferito in profondità dal devastante conflitto che dura dal 2011, dal terremoto terribile del febbraio scorso, da una povertà divenuta estrema, da un’economia al collasso. Lutti, dolore, privazioni, immani fatiche scandiscono le giornate del popolo siriano. E intanto è giunta un’altra Pasqua: Gesù risorge ancora. Il cardinale Mario Zenari, 77 anni, è nunzio apostolico in Siria dal 2009. Nelle sue parole a Catholica e catt.ch il ritratto di un Paese che vuole risorgere.

Attualmente qual è la situazione in Siria?

«La situazione è disastrosa: i soli sfollati interni sono oltre 7 milioni. Centinaia di migliaia di siriani vivono nelle tende. Lo scorso inverno alcune persone sono morte schiacciate dalle tende crollate sotto il peso della neve. Numerose infrastrutture sono distrutte o pesantemente danneggiate. Due milioni e mezzo di bambini in età scolare non possono studiare perché un edificio scolastico su tre è inagibile. Due terzi del personale sanitario è emigrato, mancano le medicine, diversi ospedali sono fuori uso. In ampie aree del Paese la corrente viene erogata solo per due ore al giorno, mentre i gravi danni alle reti idriche provocano casi di colera. I beni di prima necessità non si riescono a reperire e hanno raggiunto prezzi esorbitanti. L’economia è al collasso: il tasso di disoccupazione continua a crescere, la povertà dilaga. Migliaia di giovani emigrano. Il terremoto ha inflitto una ferita profonda a un Paese che, dopo 12 anni di guerra, era già totalmente prostrato».

Gli aiuti umanitari riescono a raggiungere la popolazione?

«Dopo il terremoto ci sono stati gesti di buona volontà e di flessibilità da parte delle autorità locali, che hanno snellito alcune pratiche burocratiche, consentito l’entrata degli aiuti da tre varchi sui confini, e facilitato presso le banche l’accredito delle donazioni. Anche la comunità internazionale ha compiuto qualche gesto di buona volontà togliendo temporaneamente alcune sanzioni. Qualcosa dunque si è mosso anche se la situazione resta  complicata e faticosa: alcuni istituti bancari, ad esempio, trovano ancora ostacoli all’accreditamento degli aiuti economici. Il mio auspicio è che il devastante terremoto possa causare un sussulto di buon senso e spinga a cercare di risolvere il conflitto sbloccando una situazione di stallo che dura ormai da anni e che pare non interessare a nessuno».

Lei coglie nel popolo siriano, insieme ad afflizione, scoraggiamento, prostrazione, anche sentimenti di speranza?

«Risiedo in Siria da 14 anni. Per 12 anni ho vissuto la guerra: ho visto morire  uomini, donne, bambini, anziani. Adesso, purtroppo, vedo morire anche la speranza nel cuore delle persone, specie dei giovani. Quando visito villaggi e città e cammino fra le strade disseminate di macerie non posso fare a meno di percepire che lì sotto è sepolta anche la speranza di questo popolo. Bisogna tirarla fuori. L’unico modo per salvarla è far rivivere la Siria trovando, finalmente, una soluzione politica che assicuri la pace e la ripresa economica. Ma questo temo sia un traguardo ancora lontano, anche a causa della situazione internazionale segnata dalla guerra in Ucraina e dai molti problemi che affliggono il Libano e altri Paesi dell’area».

Le sofferenze, le privazioni, le incertezze continue stanno minando la fede dei cristiani?

«Dopo il terremoto mi sono recato in alcune zone del Paese incontrando i fedeli. Molti domandano al Signore perché si sia abbattuta su di loro una simile catastrofe naturale dopo 12 anni di guerra, di scontri, di bombardamenti; domandano perché debbano patire tutte queste sofferenze. Sono esausti, sfiniti. Non trovano risposta, la loro fede è scossa da questi interrogativi. Cosa dire loro? L’unica risposta che si può dare, l’unica che sia persuasiva, è farsi vicini ad ogni sofferenza e offrire aiuti concreti. Nei giorni successivi al terremoto, le Chiese cristiane hanno aperto i loro edifici di culto e gli istituti religiosi per accogliere tutti coloro che avevano bisogno e provvedere alle loro prime necessità. La «Chiesa ospedale da campo»,  «la Chiesa dalle porte aperte» che papa Francesco invoca da anni, qui si è compiuta, letteralmente. Anche nelle moschee e negli edifici statali si è provveduto ad accogliere le persone. Decine di volontari, siriani e provenienti da altri Paesi, si sono spesi con grande generosità. La carità è la risposta agli interrogativi più dolorosi. Lo è stata sin dal primo anno di guerra. Sono grato alla Chiesa cattolica, e anche alle diverse Chiese cristiane, che hanno varato diversi programmi di aiuti. Desidero ringraziare di cuore papa Francesco che ci è sempre stato concretamente vicino. Qui in Siria le diverse eparchie si sono attivate per coordinare al meglio la gestione degli aiuti umanitari. Nonostante ammontino a milioni di euro e di dollari, essi restano «cinque pani e due pesci» in rapporto ai bisogni della popolazione. Come dissero gli apostoli a Gesù: «Ma che cos’è questo per tanta gente?» (Giovanni 6,9). A quel tempo, però, cinque pani e due pesci bastarono, e ne avanzò persino. Noi confidiamo in Gesù».

Che Pasqua sarà per lei e per i fedeli siriani?

«Celebrerò la Pasqua con i fedeli a Damasco, la citta dove Saulo venne battezzato dopo aver avuto l’apparizione sfolgorante del Cristo risorto. Per tutti sarà un’altra Pasqua di attesa: da 12 anni, da 4380 giorni vissuti tra sofferenze e privazioni, aspettiamo di celebrare una Pasqua normale, senza bombe, senza digiuni forzati, senza patimenti. Sarà comunque una Pasqua gioiosa perché il Signore risorge, perché da Lui abbiamo appreso che la storia non è solo nelle mani del potere politico né di quello economico né di quello militare, non è solo in balia delle catastrofi naturali né della cattiveria umana. La storia è nelle mani Dio, che non dimentica il grido degli afflitti (Salmo 9,13). Chi guida la storia è la Sua paternità».

8 Aprile 2023 | 05:06
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