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Internazionale

«Oltre la morte, ci attende la misura dell'amore di Dio». Un dialogo con il teologo Piero Coda

di Cristina Uguccioni

«Ma quando da morte passerò alla vita» – scriveva David Maria Turoldo in una celebre poesia – «allora saprò la pazienza con cui m’attendevi; e quanto mi preparavi, con amore, alle nozze». Proprio della nostra risurrezione e di queste «nozze» riflette con catt.ch e Catholica il teologo Piero Coda, docente di Ontologia Trinitaria presso l’Istituto Universitario Sophia, Segretario generale della Commissione Teologica Internazionale, consultore della Segreteria del Sinodo e membro della Commissione Teologica per il processo sinodale.

La cultura occidentale contemporanea pare molto concentrata sull’origine della vita e del mondo, molto poco sulla destinazione: perché?

«L’osservazione è pertinente. È sintomo di qualcosa di profondo, perché interrogarsi sulla destinazione significa interrogarsi senza schermi di protezione sul senso di ciò e di chi siamo. Non che questo interrogativo non si ponga anche quando si affronta la domanda sull’origine, ma in questo caso è più facile restare sul piano delle dinamiche e delle ragioni di cui la ricerca scientifica ci dà conto, sia per quanto riguarda l’origine biologica dell’essere umano sia per quanto riguarda l’origine fisica del cosmo. Ma anche riguardo all’origine non può poi non porsi la domanda sul significato di quest’evento, interpellando il discernimento di un livello della realtà che è oltre. In questo contesto è essenziale risvegliare la domanda sulla destinazione come invito ad assumere la sfida del senso».

Congedandosi dai suoi discepoli, Gesù ha detto: «vado a prepararvi un posto». Lei come immagina sarà questo posto e «la vita del mondo che verrà», la vita eterna nel mondo di Dio?

«La promessa di Gesù è forte. Perché quel «posto» è lo stesso che ha lui: quello di figlio di Dio. E il figlio è erede. «Tutto ciò che è mio è tuo», dice il padre nella parabola che chiamiamo «del figliol prodigo». La cosa è strabiliante, oltrepassa quanto possiamo pensare e desiderare. Eppure non si tratta di una realtà che esula dalla nostra vita «di quaggiù». Non facciamo l’esperienza, di quando in quando, di realtà mozzafiato, intense, straordinarie? L’incanto di un paesaggio montano o marino, la gioia dell’amore vero, un dono imprevisto ed eccedente ogni attesa… Che cosa potrà essere allora il vivere in quello che chiamiamo Paradiso, quando tutto ciò conoscerà un’impensabile intensificazione e più non avrà interruzione! Ci sarà una misura in tutto questo? Mi affascinano le parole della Scrittura: «Lo vedremo così com’egli è», «lo vedremo così come da lui siamo visti». Un conoscere che è – nel lessico biblico – comunione sponsale. La misura di ciò che ci attende è dunque l’amore, l’amore di Dio, l’amore che è Dio. Immagino qualcosa, sì, ma solo per lasciare spazio a una sorpresa più grande. Mi piace far mie le parole che un carissimo amico, Italo Alighiero Chiusano, nel romanzo Konradin (il nipote di Federico II di Svevia), mette sulle labbra del protagonista prima d’essere giustiziato: Non so che cosa mi aspetterà… Ma so per certo che benedirò, da quel momento, la fortuna di essere nato».

Dopo la morte come pensa sarà il nostro essere?

«La mente subito corre a quell’articolo del Credo che contempla la risurrezione della carne. È tutto il nostro essere che è destinato a essere accolto in Dio e lì, in lui, a espandere in pienezza la sua vita. Non lo spirito, soltanto, ma anche la psiche e il corpo. Come? In un’altra dimensione, certo, da quella che sperimentiamo. La possiamo chiamare «trasfigurazione»?, l’essere trasportati in un’altra regione dell’essere: dove tutto è luce, amore, trasparenza, comunicazione. Tutto ciò che di reale e di bello c’è nella nostra esperienza. Come altrimenti potremmo sussistere, nella nostra carne risorta – come quella di Gesù risorto, «primogenito» tra molti fratelli e sorelle – senza «cieli nuovi e terra nuova»?».

Circa il giudizio finale che attende tutti, cosa dobbiamo aspettarci? Qualcuno potrebbe chiedersi: se siamo salvati per grazia che peso avrà il modo in cui abbiamo vissuto? 

«Il giudizio di Dio sull’operare nostro e, prima, sull’intenzione del nostro cuore, è una grazia! Se non vi fosse questo discernimento che separa il bene dal male, saremmo perduti, nulla avrebbe più senso. Ma il giudizio è quello della misericordia, come attesta Gesù: «Dio ha mandato il Figlio nel mondo perché il mondo si salvi per mezzo di lui». Si tratta di accogliere questa misericordia. Se ho avuto il dono di accoglierla ispirando ad essa la mia vita, anche – come succede – a caro prezzo, l’amore di Dio la porterà a compimento. Se non l’ho fatto, colpevolmente o meno che sia, avrò però la chance del perdono anche se in extremis.Non promette Gesù al buon ladrone che gli si affida sulla croce: «oggi sarai con me in Paradiso?». Mi hanno sempre colpito le parole di una mistica del nostro tempo, Chiara Lubich: «chi è nel Padre, venuto da una lunga trafila di peccati, per pura misericordia di Dio, è di fronte a Dio uguale all’innocente che v’è arrivato a furia d’amore. Infatti lassù Misericordia e Amore sono Uno».

Si può dire che se il mondo di Dio è il mondo del voler bene, la nostra vita qui, sulla terra, è un cammino nel quale imparare a voler bene, per poi abitare nel Suo mondo e non sentirci estranei?

Sì, proprio così! È bello quanto scrive Tommaso d’Aquino nel suo commento al simbolo degli apostoli a proposito della vita che non avrà più fine in Dio. Essa – chiosa – consisterà nella «gioiosa compagina di tutti i beati; che sarà la più felice: perché ciascuno avrà tutti i beni con tutti gli altri. Ciascuno infatti amerà l’altro come se stesso e perciò si rallegrerà del bene altrui come del proprio». Ce n’è di che fare un radicale esame di coscienza di fronte a ciò che tragicamente viviamo oggi».

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14 Aprile 2024 | 07:11
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