Svizzera

In Svizzera l’integrazione bussa alle Chiese. Intervista a Isabel Vasquez, nuova direttrice di «Migratio»

di Corinne Zaugg 

Da poco meno di un anno Isabel Vasquez è la nuova direttrice di «Migratio», la commissione della Conferenza dei vescovi svizzeri per la migrazione. Spagnola, nata in Guatemala, figlia di migranti, ha un marito austriaco e due figlie ormai adulte. Oggi vive nel canton Zurigo e le lingue che la sua storia personale le ha fatto imparare, sono uno degli strumenti più importanti del suo lavoro. Un lavoro che consiste principalmente nel garantire a chi arriva da lontano ed è di fede cattolica di potersi inserire armoniosamente all’interno della Chiesa in Svizzera, trovandovi una comunità attenta ed accogliente. Una sfida non da poco, che abbraccia da un lato i nuovi fedeli che arrivano e che, al contempo si prende cura anche dei fedeli residenti, aiutandoli se e dove è necessario, a condividere spazi, abitudini, usanze, canti, liturgia e tutto quello che serve per sentirsi bene all’interno della comunità parrocchiale. L’accoglienza non è semplice. E non si crea sempre, né subito, né spontaneamente. Perché non dipende solo dal «buon cuore». Esistono regole, piccole astuzie, cose da sapere per non cadere involontariamente in quello che i sociologi chiamano «razzismo strutturale », ossia in una forma di razzismo che non esplode in gesti plateali, non diventa insulto o rifiuto, ma si insinua in maniera strisciante in tanti comportamenti giudicati accettabili, all’interno delle istituzioni e persino nelle Chiese. In questi giorni, proprio su questo tema, è uscito un Rapporto che il Servizio per la lotta al razzismo del Dipartimento dell’Interno, ha commissionato all’Università di Neuchâtel. Le comunità cattoliche in Svizzera contano alte percentuali di stranieri, di prima, seconda, terza generazione. Circa il 42% dei cattolici in Svizzera ha alle spalle un passato migratorio. Mentre in alcuni luogi (per esempio nella diocesi di Losanna/ Ginevra/Friburgo) la percentuale sale addirittura al 60/70%. La prima domanda che poniamo a Isabel Vasquez è se nelle nostre comunità esistano forme di razzismo strutturale. «Purtroppo sì», risponde. «Spesso il razzismo nasce dalla paura. Di fronte ad una persona che non conosco, ad una situazione che mi è nuova, la mia reazione può essere inconsapevolmente razzista. E questo, anche all’interno delle nostre parrocchie. Questo fa sì, per esempio, che in una parrocchia si celibrino due messe separate: alle 9 per la comunità locale e alla sera per gli stranieri. La religione e la liturgia sono le stesse ma si preferisce celebrare in momenti diversi». Per aiutare i fedeli avete messo per iscritto alcune linee guida: che consigli date? «Proponiamo di sviluppare all’interno delle chiese una cultura dell’accoglienza, dove non basta dire «ciao» ma dove si cerca di capire il momento che i nuovi arrivati stanno attraversando. Sono state individuate cinque fasi che i migranti attraversano. Magari incontriamo qualcuno che si trova nella fase «tre», dove è ancora in lutto per quello che ha lasciato e si trova, in pieno choc culturale. Non possiamo aspettarci che ci dica: «Fantastico quello che fate!» In questo momento la frase giusta da dirgli sarà: «Cosa posso fare io per te?»». Quindi, per essere una Chiesa interculturale non è sufficiente permettere a ciascuno di pregare nella propria lingua… «Esattamente», sorride. «Essere interculturali significa accettare che ogni cultura possa portare all’interno della comunità ciò che le è proprio. Se no, si è tutt’al più… interlinguistici».

| © zVg
18 Aprile 2023 | 11:53
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