Il coro dei bambini ebrei e palestinesi della scuola primaria del villaggio.
Ticino e Grigionitaliano

Dove vivere insieme è realtà. Con il teologo Salvarani raccontiamo il Villaggio di «Neve Shalom»

di Cristina Vonzun

La pace è qualcosa di impossibile? Domenica a Lugano, cristiani di tutte le confessioni, cammineranno insieme con la Luce di Betlemme, un simbolo universale di pace che proviene da una terra in guerra (vedi box). Proprio in Israele ci sono coloro che non si arrendono al conflitto tra ebrei e palestinesi. Tra questi gli abitanti di «Neve Shalom – Wahat al- Salam» («NSWAS») (in italiano «oasi di pace»), villaggio sorto ad inizio anni ›70, dove famiglie palestinesi ed ebree vivono insieme, oggi 350 abitanti. Una realtà tanto piccola quanto profetica, fondata da André Hussar (1911-1996), ebreo ungherese, nato in Egitto, diventato cattolico e poi frate domenicano con il nome di fra Bruno. In Svizzera e in una dozzina di altri Paesi ci sono associazioni che sostengono «NSWAS» e soprattutto lavorano per la scuola di educazione alla pace del villaggio.

«I primi giorni dopo il 7 ottobre nel villaggio gli abitanti sentivano passare aerei e bombe sulle loro teste. Allora – ci racconta Brunetto Salvarani, teologo, giornalista, scrittore, docente, esperto di dialogo interreligioso e presidente dell’Associazione italiana di «NSWAS» – hanno cercato di elaborare quello che stava succedendo, dapprima in chiave nazionale, cioè ebrei da una parte e palestinesi dall’altra. Dopo pochi giorni, hanno deciso di incontrarsi tutti per affrontare un ragionamento più complessivo. Ne è uscita una duplice riflessione: sia quella sul momento, forse il più difficile in assoluto; sia sulla consapevolezza della forza profetica che «NSWAS» rappresenta.

Prof. Salvarani, la scuola per la pace del villaggio ha formato in 40 anni 75 mila persone alla gestione del conflitto. Davanti all’accanirsi della guerra, non vi sembra che questa profezia non sia stata ascoltata? Questo conflitto è apocalittico, nel senso etimologico di «rivelatore» di una situazione che smaschera le contraddizioni e spiega anche il fatto che nonostante la scuola per la pace, la direzione che è stata presa – non solo in Israele, non solo in Palestina ma purtroppo in tante parti del mondo – è esattamente opposta. Da una parte c’è la debolezza della politica, dall’altra la fragilità delle istituzioni mondiali, vedi anche l’ONU, e infine – e qui ricordo le chiacchierate con padre Bruno – la «forza» delle religioni, ma quali? Religioni identitarie e fondamentaliste, quelle che un sociologo francese, Oliver Roy chiama le «religioni della santa ignoranza». Questo contesto purtroppo spiega il fatto che nonostante la buona volontà, l’investimento e dei segnali positivi usciti dal villaggio ma anche da altre realtà – penso ad esempio ai «parents circle», il gruppo di genitori che rielaborano dei lutti soprattutto di figli morti nel conflitto, cercando di farlo non producendo rabbia, ma germi positivi di pace – il quadro di questi ultimi decenni ha prodotto chiusure tali da arrivare a questo punto.

Per precisare: qual è la differenza tra identità religiosa e religioni identitarie? L’identità è una componente essenziale delle religioni e non è un elemento negativo se vissuta in modo aperto, quale punto di partenza per ogni relazione. Il dialogo interreligioso funziona nella misura in cui ci sono degli interlocutori consapevoli della propria identità ma anche consapevoli che le identità vanno maneggiate con cura perché possono diventare un detonatore molto pericoloso nel momento in cui vengono usate come una spada contro gli altri o come una corazza per difendersi dal mondo, visto come nemico e cattivo.

Qual è la via per cambiare lo sguardo sull’altro, anche sul «nemico»? Il cardinale Martini quando si recò a Gerusalemme, alla fine del suo ministero a Milano, si propose come mediatore tra ebrei e palestinesi. Martini sosteneva che per superare l’idolo dell’odio e della violenza l’unica possibilità è imparare a guardare il dolore dell’altro. La memoria delle sofferenze accumulate in tanti decenni alimenta l’odio quando è solo la memoria di sé stessi, riferita al proprio gruppo, alla propria causa, anche se sacrosanta. Qui siamo davanti a due ragioni. Se andiamo a ripercorrere la vicenda storica non ne usciamo. Quindi non ci si può fermare al proprio dolore, perché da esso non possono che nascere rappresaglie, morti e vendette, come stiamo vedendo, ma occorre ripartire dall’incontrare anche il dolore dell’altro e addirittura, diceva Martini, quello del nemico. NSWAS, nel suo piccolo, cerca di percorrere questa strada, tenendo presente che non è il Paradiso ma un luogo dove imparare a gestire i conflitti.

Il teologo Brunetto Salvarani con il filosofo Roberto Mancini ha pubblicato da poco «Oltre la guerra. Le vie della pace tra teologia e filosofia », Effatà 2023.

La luce di Betlemme da domani in Ticino

Nella Chiesa della Natività a Betlemme vi è una lampada ad olio che arde perennemente da moltissimi secoli, alimentata dall’olio donato a turno da tutte le Nazioni cristiane della Terra. A dicembre da quella fiamma ne vengono accese altre e vengono diffuse a Natale in oltre 30 Paesi come simbolo di pace e fratellanza fra i popoli. Passando di mano in mano, la «Luce della Pace» – così è chiamata anche l’iniziativa – giungerà in Ticino domani, 17 dicembre. In particolare a Lugano verrà condivisa e portata alle ore 16 in cammino dalla chiesa di S. Antonio alla chiesa evangelica riformata, su iniziativa delle parrocchie luganesi, dell’Oratorio e dell’associazione ecumenica «Luce della Pace da Betlemme». Lunedì, alle ore 18, la luce sarà invece nella chiesa del Collegio Papio di Ascona su iniziativa della Rete pastorale «Madonna della Fontana».

Il coro dei bambini ebrei e palestinesi della scuola primaria del villaggio. | © fondazioneneveshalom
16 Dicembre 2023 | 07:41
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