Ticino e Grigionitaliano

Bruna Cases: il diario inedito di una bambina ebrea fortunata

Dobbiamo provare a immaginarla: una bambina di 9 anni, discendente da una famiglia di ebrei milanesi benestanti, ben introdotti nella società italiana del tempo, che nel giro di pochi mesi si trova improvvisamente catturata dal turbine della Storia. Con la sua immaginazione infantile tiene traccia, in un commovente diario che tanto ricorda i temi scolastici dei nostri figli, delle proprie impressioni di giovane esule: il rapporto con i contrabbandieri che hanno favorito (non gratis) il passaggio del confine, l’incontro con le guardie svizzere al valico di San Pietro di Stabio e le numerose tappe del sistema cantonale di accoglienza, tra Rovio, Bellinzona, Lugano, Piotta, Roveredo. Una vera e propria avventura, per fortuna con un insperato lieto fine.

Sarebbe facile accostare queste poche, preziose pagine di Bruna Cases al diario più celebre del XX secolo, quello di Anna Frank; e in fondo ci farebbe bene, perché l’intelligente resoconto della ragazzina olandese ha finito per dettare un’interpretazione monocorde della memoria della Shoah: quella della disperazione, della vittima priva di scampo. Senza nulla togliere alla portata di quei drammi («Mai l’Universo aveva visto qualcosa di così spaventoso» scrisse a caldo lo scrittore russo di origine ebraica Vasilij Grossman), è senz’altro salutare spostare un poco il punto di osservazione, dal destino delle vittime a quello dei salvati, insomma da Anna a Bruna, per ricordarci che un altro futuro è possibile.

Il disegno della piccola Bruna che mostra la rete di ferro sul confine tra Svizzera e Italia in tempi di guerra.

Alcuni anni or sono la senatrice italiana Liliana Segre, in visita in Ticino, aveva giustamente rimesso la Svizzera di fronte alle proprie responsabilità. Respinta alla dogana di Arzo assieme ad alcuni familiari, finì ad Auschwitz dove perse il padre e si salvò per miracolo. La sua accusa, e la conseguente richiesta di scuse del Consigliere di Stato Manuele Bertoli, sono state un pungolo per la nostra coscienza pubblica, richiamando alla mente fatti che credevamo sotterrati da tempo, come la questione degli averi ebraici nelle banche svizzere, o i risultati molto severi della Commissione Bergier. La storiografia, da allora, ha corretto un po’ il tiro e ha dimostrato, grazie alle ricerche di Renata Broggini, Marino Viganò e Adriano Bazzocchi, che sono molti meno gli ebrei cui fu negato l’accesso nel nostro Paese: circa 700, invece dei 12’000 resi noti in un primo tempo. Fosse stato anche soltanto uno, sarebbe stato comunque uno di troppo (si pensi ancora alla giovane Segre), ma è bello pensare che tra gli accolti ci fu la piccola Cases con la sua famiglia, capace di apprezzare nel giusto modo la generosità di un Paese forse un po’ rigido nella sua gestione dei luoghi di accoglienza – sarebbe bastato un piccolo sforzo per risultare ancora più umani – ma certo disposto a fare la propria parte, anche contro le direttive federali.

Il diario di Bruna non era sfuggito, alcuni anni or sono, alle antenne sempre molto ricettive della Broggini, che se ne era servita qui e là nel suo libro La frontiera della speranza (Mondadori, 1998). Nella grande mole di informazioni raccolte era passata però sotto traccia l’età della bambina, che con il suo sguardo candido e in fondo un po’ naïf si attendeva di entrare in Svizzera «con una bella macchina», soltanto per essere brutalmente smentita dai fatti. Non mancano però anche grandi momenti di consapevolezza, segno che i bambini sanno sempre cogliere, a modo loro, il fondamento di ogni esperienza, per poi riassumerlo con una forza immaginati- va sconosciuta al mondo degli adulti: «L’Italia era occupata a nord dai Tedeschi e a sud dagli Inglesi, ma gli ultimi procedevano adagio adagio. Intanto i Tedeschi maltrattavano gli Ebrei; appunto noi eravamo di questi».

di Pietro Montorfani 

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30 Gennaio 2022 | 21:00
Tempo di lettura: ca. 2 min.
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