La cappella del Monastero di Cademario.
Ticino e Grigionitaliano

Le clarisse di Cademario: «Credenti e non credenti, tutti sono abitati da Dio»

«Il Papa, nel momento di preghiera del 27 marzo, ci ha detto: «La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti». La nostra quotidianità non è cambiata molto, ma sono cambiate la coscienza e le domande con cui facciamo le solite cose». Questo ci dicono «ad una sola voce» le sorelle clarisse di Cademario, dal loro monastero di clausura.

«Stiamo vivendo la preghiera e il servizio silenzioso, pilastri della nostra vita, – continuano le sorelle – con una consapevolezza e una profondità maggiori. La clausura è diventata ancora più stretta e i contatti con l’esterno si sono ridotti al minimo. Ci vorrà tanto tempo per comprendere e scoprire tutta la portata di questa vicenda: ci colpisce come in un attimo ogni essere umano, senza distinzioni, sia stato toccato e riportato, più o meno consapevolmente, alla propria verità costitutiva: siamo creature, non ci facciamo da noi stessi e non bastiamo a noi stessi. Dipendiamo. Anche noi con tutto il Popolo di Dio, da tempo non possiamo più celebrare l’Eucarestia e così partecipiamo attraverso la televisione alla Messa di Papa Francesco e del Vescovo di Lugano vivendo il digiuno eucaristico nei giorni feriali e facendoci educare dalla «Comunione spirituale».

Ci mettiamo quindi in atteggiamento di ascolto della loro esperienza monastica ispirata alla povertà evangelica vissuta dai Santi Chiara e Francesco, una vita essenziale, come quella che stiamo riscoprendo un po’ tutti in queste giornate, non facili per nessuno.

Sorelle, durante questa emergenza coronavirus la gente come vi può raggiungere?

Un tempo di prova, prova i legami più veri. I contatti con le persone si sono trasformati, ma non sono venuti meno, stanno trovando altre forme. Molti amici e parenti sentono il bisogno di darci un colpo di telefono per assicurarsi che stiamo bene e anche chi chiama o ci scrive per affidarci i drammi, i lutti e le grandi domande che pesano nel cuore, spesso poi ci domanda se abbiamo bisogno di qualcosa; anche con queste restrizioni non ci mancano gesti di vicinanza, così ci scambiamo semi di speranza. E’ davvero uno scambio di doni: loro ci chiedono preghiere, ma vogliono anche darci qualcosa, fosse anche solo un piccolo segno di affetto. Questo era vero anche prima, ma oggi c’è una fantasia, una creatività che sono nuove, inedite: in noi e in loro.

Quali domande arrivano in questo tempo al monastero, che è per molti un luogo di amicizia e confronto?

In questi giorni, più che mai, ci sentiamo in comunione profonda e reale con tutti i cuori affaticati, provati, che vivono la solitudine e con tutti coloro che stanno spendendo la propria vita per i fratelli. Respiriamo da parte di chi ci raggiunge, tutto il desiderio di vicinanza, di condivisione e di speranza. L’esordio di ogni conversazione è chiedersi reciprocamente: «Come state?» che non ha nulla di formale in questi tempi, ma che dice l’affetto, la cura e la familiarità.  Sono racchiuse in questa semplice domanda tutte le dimensioni del nostro esistere: spirito, anima e corpo, insomma tutto di noi che chiede, prega, supplica, piange e però riscopre anche la grazia dell’oggi: il sostegno, la comunione, la fede.

Oggi molte famiglie vivono in casa, il balcone diventa il luogo privilegiato per il gioco dei bambini, qualcuno ha il giardino, tuttavia la convivenza prolungata mette a dura prova le relazioni interpersonali. Avete qualche suggerimento pratico, a partire dalla vostra scelta della clausura?

Sicuramente l’esperienza della prossimità, del «non poter scappare» dalla presenza dell’altro è una bella opportunità e insieme una sfida: ci fa accorgere di noi, di come siamo – e questo non è sempre piacevole! –, ma permette anche di scendere sempre più in profondità, lì dove c’è quel punto sorgivo di unità che non è mai fabbricato da noi o stabilito dalla comunanza di gusti, sensibilità, storie, ma è la nostra comune condizione di creature, di figli generati e continuamente rigenerati da un Amore infinito; tutti «nasciamo» lì, e solo da lì rinasce sempre di nuovo la possibilità di guardarci in un altro modo. Riconoscere e accogliere le mie fragilità, paure, fissazioni… mi permette di accogliere con più benevolenza le tue: so che stai combattendo la mia stessa battaglia e allora possiamo sorridere insieme, provando a lasciar correre sulle cose non essenziali, tacendo un po’ di più … e chiedendo al Signore il suo sguardo.

Dio in questo tempo può diventare un soggetto a cui pensare, anche per tanti che si ritengono non credenti. Come rivolgersi a Dio, se non lo si è mai fatto prima? 

La vera domanda è: «Come non rivolgersi a Dio?». I cieli e la terra sono pieni della gloria di Dio. Cielo, terra, tu, io, tutti e tutto, siamo abitati da Dio. Dove andare lontano dal suo Spirito, dove fuggire dalla sua presenza? «Se salgo in cielo là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti». Come pregare? Forse basta respirare. Il respiro è la prima preghiera, cordone ombelicale che ci collega al grembo di Dio, l’universo. Inspirare-espirare. Vita ricevuta e ri-offerta. Amore ricevuto e ri-offerto. All’inizio dei tempi lo spirito aleggiava sul volto delle acque, e fecondava, apriva alla vita e alla luce il grembo informe dell’universo. Anche ora questo avviene, sta avvenendo invisibile nel silenzio della realtà, nel silenzio del dolore. «Ma egli ruppe la scorza del dolore in pezzi e distese alte le mani come per trattenere il Dio fuggente» (R. M. Rilke).

  C’è pure chi sente la sua fede messa in crisi da un lutto improvviso. Quale parola di consolazione può ricevere e a quale speranza può guardare?

Le parole che diciamo nel tentativo di consolare se non nascono da un profondo silenzio e preghiera, da un’autentica compassione e vicinanza, rischiano di essere vuote. Ma non ci è risparmiato il rischio di pronunciare una parola, una parola che non sia nostra, una parola umana che faccia risuonare la Sua Parola di vita eterna. Anche oggi a chi attraversa la notte della fede Gesù ripete «Ho pregato per te, che non venga meno la tua fede» (Lc 22,32). Il lutto può essere l’opportunità per incontrare il Signore, per gridare dagli abissi attendendo che Lui ci prenda per mano e ci trascini nella luce della sua Pasqua. Gesù non ci toglie il dolore, ma ci ha promesso di essere con noi e di portarci con sé nel grembo della Trinità, dove già possiamo vivere nella gloria e nella comunione con quanti ci hanno lasciato.

  Quali sono i segni di speranza che cogliete, nonostante tutta questa sofferenza?

La nostra speranza è Gesù, sempre e comunque! La luce dell’imminente Pasqua ci mostra tutto lo splendore del Padre della Vita, che non ha permesso alla morte di vincere. In questo tempo di tenebre, la luce di un immenso bene sta giganteggiando sull’umanità: vediamo tanta grandezza nei cuori umani, è questa la Vita che vince!

La nostra speranza è che lo Spirito Santo ci aiuti a custodire la memoria del patrimonio di bene che vediamo oggi e di cui siamo capaci: è un tesoro cui sempre possiamo attingere e che possiamo alimentare. E poi la memoria del «noi», la coscienza che la mia vita è legata a quella degli altri, che insieme formiamo un corpo e possiamo aver cura gli uni degli altri. Lì appare la Vita vera, luminosa, donataci da Gesù Risorto.

Volteremo pagina, certo, ma non buttiamo via il libro!

Cristina Vonzun

La cappella del Monastero di Cademario.
5 Aprile 2020 | 22:00
Tempo di lettura: ca. 4 min.
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