Commento

Riflessione sulle donne nella Chiesa. Il nodo è il potere

Sguardo nuovo. Di monsignor Luciano Pacomio, vescovo di Mondovì, è appena uscito il libro Buona attesa. Sguardo nuovo, dono, esperienza, interpretazione, percorso (Assisi, Cittadella Editrice, 2017, pagine 352, euro 19,90). È interpretabile come «buona attesa», spiega l’autore nell’introduzione, «l’oggi cristiano, possibile in ogni storia di persona, che vive nel quotidiano un’esperienza umile, serena anche nei guai, allietante pur nel limite e nel soffrire, unitaria, inglobante». Tale buona attesa «non è che partecipare al modo di essere e di agire del buon Dio».
Le scelte e i tentativi dei movimenti femministi di ogni tipo, a partire almeno dagli anni Settanta del secolo scorso, ci hanno avvertito che la lotta delle donne ha un senso e ha molteplici variegati perché.
Fin dal primo secolo della nostra era, per le donne e in favore di tutti, uomini e donne, sono state fatte da Gesù scelte, messi in atto gesti ed espresse riflessioni che per sempre interpelleranno le culture di ogni epoca e si riproporranno come rivoluzionarie e come innovatrici in modo propositivo per ogni nuova generazione. Il nodo, a mio modesto avviso, brutalmente detto, è proprio il potere, il potere delle donne, nei vari ambiti di vita e nei diversi approcci interpretativi culturali, a fare problema e a suscitare impegni di lotta per acquisizioni.
Parto da due insegnamenti biblici (letture del lunedì della XI settimana durante l’anno). Paolo scrive citando la Scrittura: «Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso [Isaia, 49, 8]. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza» (2 Corinzi 6, 2). Paolo continua a descrivere il vissuto dialettico dell’apostolo e dei cristiani di Corinto, che non è per nulla umanamente positivo, lineare, promettente. È un’altalena: «nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama, come impostori e pur veritieri, come sconosciuti eppure notissimi (…) come afflitti e sempre lieti» (2 Corinzi 6, 8-10). Questo è giorno di salvezza? Indi l’incredibile proposta del discorso della montagna (Matteo 5, 38-42) ci interpella come presi di petto: «E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle».
Il cammino storico-culturale rispetto allo spazio dato dagli uomini maschi alle donne, grazie anche e soprattutto al cristianesimo, si è sempre più allargato e reso criticamente motivato con successo, anche se, come tante relazioni sociali — si pensi alle vecchie e nuove schiavitù — mai hanno avuto successi linearmente progredienti, ha conosciuto fallimenti e molte occasioni mancate. Il tutto per interventi o decisioni attuate e perse, a turno, degli uomini e delle donne.
Di fronte alle possibili responsabilità, di detenere il potere come servizio che la donna avrà e dovrà avere nella Chiesa, da un lato rifisso lo sguardo sulle parole e scelte di Gesù e sui primi tentativi delle Chiese apostoliche. Dall’altro, pongo attenzione alla carica di ambiguità che porta con sé il linguaggio del paritetico (pari diritti, pari poteri, pari doveri) e assumo volentieri il linguaggio del primato del dono e del vivere asimmetrico della donna e dell’uomo. Proprio la maternità ci rivela la possibilità e la specifica formalità del donare la vita umana e l’asimmetricità dell’oblazione cristiana che uomo e donna credenti possono faticosamente e gioiosamente vivere.
C’è uno stile e una cultura pervasiva che deve crescere affinché, credenti (donne e uomini), attestiamo dietro a Gesù che potere è servire e che agire per il bene dell’altro è amare.
Dunque anche il potere ecclesiastico non solo dovrebbe essere esemplare nell’amore; ma anche ogni promozione femminile nel potere-servizio ecclesiastico dovrebbe così configurarsi. Ritorno sull’espressione «genio femminile» usata da Giovanni Paolo II; la riproporrei con il concetto di «genio umano al femminile». E lo qualifico così. L’unicum della donna, il primato che nessuna tecnologia le potrà togliere, anche se è possibile manipolare e alterare, è essere madre, generatrice. È il suo essere donna, il progetto iscritto strutturalmente nel suo essere psicofisico permanente nella storicità, in ogni cultura e in ogni nuova generazione.
C’entra evidentemente la condizione umana sessuata, ma non in forma unidirezionale e in modo univoco assoluto. Maria è stata veramente madre di Gesù, con un umile straordinario itinerario di adesione, crescita e comunione con il Figlio. Maternità divinamente estesa a tutti, uomini e donne, illuminando e attuando, in modo inedito, ma possibile, ogni altra maternità storica di ciascuna donna: la donna consacrata; anche la donna che per svariate vicende non ha potuto sposarsi; anche la donna che fisiologicamente non ha potuto avere figli; anche la donna che si è dedicata a qualche persona — della famiglia, impedita, in difficoltà, in necessità — o a malati o a bambini, o a professioni che l’hanno totalmente coinvolta; anche la donna «scarto» che può aiutare in punta di piedi, con un cuore lacerato, ma generante, altri individui considerati scarti dalla società e impegnarsi a favore di chi vive appunto come «scarto».
L’uomo è padre, può avere una tonalità materna, ma non può essere madre. La donna può essere più intelligente e più volitivamente impegnata dell’uomo, ma non può essere padre; è madre. Può avere una maternità con forte tonalità paterna, ma non può che essere, sempre e con mille caratteristiche di valore o di limite, soltanto madre.
Per rispetto alla sensibilità di tanti, propongo a modo di interrogativo, sommessamente, il rapporto tra ministero ordinato e servizio della donna, partendo dal basso diaconato che in realtà è lo zoccolo duro e la configurazione fondamentale degli ulteriori gradi del ministero ordinato. C’è una versione al femminile possibile e bella del servizio diaconale nella Chiesa? Può essere un sacramentale istituito con un nome e una gamma di testimonianze, anche se non sacramento, uno dei sette? È possibile una responsabilità femminile di conduzione pastorale di una comunità cristiana e di organismi ecclesiali ed ecclesiastici diocesani, e che tenga conto del desiderio buono e forte, della dotazione di fede che ama concretamente, del riconoscimento di tante persone della comunità stessa e della Chiesa diocesana? Ovviamente i termini possono essere scelti e ripensati: referente pastorale, responsabile di comunità, assistente pastorale.
Ci sono primati imprescindibili nel nostro contesto contemporaneo che qualificherebbero anche il servizio ministeriale al femminile, oltre che al maschile: la cura dei poveri (di ogni tipo di povertà) e la promozione della pace (dei cuori, dei rapporti interpersonali).
È lo stile di presenza umana che genera vita. È possibile, poi, pensare donne cardines che, pur non avendo ministero ordinato, ma in quanto dotate di potere-servizio nella Chiesa, abbiano facoltà di partecipare fondatamente e motivatamente ad azioni di consiglio del Papa e all’elezione di un Papa? Non è la smania del potere, non è l’idolatria dell’amministrare denaro, tanto meno rivalsa sul maschile, ma il possibile, benedetto e fluente cammino sinodale, aperto, fraterno, cristiano, promettente. Tutti siamo chiamati a pregare, pensare, promuovere questo futuro.

(Osservatore Romano)

10 Luglio 2017 | 14:12
Tempo di lettura: ca. 4 min.
chiesa (579), donne (113)
Condividere questo articolo!