Ticino e Grigionitaliano

Un’epoca di grandi cambiamenti

Diocesi autonoma da quella di Basilea anche sotto il punto di vista del titolo di vescovo dal 1971, quella di Lugano poteva partecipare al grande gesto della Chiesa svizzera: il Sinodo 72, così denominato dall’anno del suo inizio, un’assise che si radunò periodicamente fino al 1975.

Il Concilio Vaticano II ed il ›68: due scosse di terremoto

Il Concilio Vaticano II si era concluso nel 1965, lasciando importanti documenti ed una notevole confusione. Durante i lavori erano emerse con chiarezza forti tensioni tra avversari e fautori di un radicale rinnovamento della Chiesa: era in gioco la sua immagine, il rapporto con il mondo ed il ruolo dei laici. Al termine del Concilio, non mancò chi si sentiva abilitato a continuare a mettere tutto in discussione, come se l’abbandono della concezione monarchica della Chiesa e del Papa abilitasse alla messa in questione della stessa idea di autorità. Si manifestavano clamorosi fenomeni di dissenso, si faceva largo la teologia della liberazione, frutto dell’adozione dell’analisi marxista nell’affronto del problema enorme della povertà del Terzo Mondo. Un tema popolarissimo tra i giovani segnati dalla contestazione del 1968 e facilmente egemonizzati da un’ideologia, che, per non essere al potere nelle società occidentali, appariva nuova e persuasiva. L’anelito alla libertà ed all’autenticità condannava il perbenismo di una società ritenuta ipocrita; soprattutto la morale sessuale era giudicata una forma di repressione e un tabù borghese.

Una nuova mentalità avanza

Paesi come l’Italia, che aveva mantenuta ferma l’indissolubilità del matrimonio anche come legame civile, si avviavano sotto la spinta di una rapida evoluzione della mentalità ad ammettere il divorzio e, quasi senza soluzione di continuità, a riconoscere dapprima l’impunibilità e poi un sempre più largo diritto all’aborto, inteso non più come estrema ratio, ma come diritto tout court delle donne. Al momento della decisione sul divorzio quasi nessuno sembrava in grado di riconoscere che l’indissolubilità del matrimonio, l’impegnativo «per sempre», non era solo un obbligo imposto dalla Chiesa tramite il sacramento ma anche l’aspirazione profonda di ogni amore. Così come, anche nel mondo cattolico, si accettò con fatica la dottrina della Humanae vitae di papa S. Paolo VI.
La società svizzera conosceva il divorzio nel matrimonio civile fin dal XIX secolo, ma negli anni ’70 iniziava a sua volta l’iter verso una sempre più larga accettazione dell’aborto, osteggiato dalle forze cristiane – cattoliche e riformate – e richiesto dalle sinistre e non solo da loro, forze motrici di un progresso improntato alla massima libertà dell’individuo. Il tema fu al centro di dibattiti parlamentari ed il popolo più volte chiamato alle urne. La battaglia per l’aborto però non fu decisa in parlamento, ma nella mentalità della gente (da una maggioranza popolare ostile a larghe soluzioni quale quella dei termini e delle indicazioni sociali nel 1977 e 1978, all’approvazione con il 72% di favorevoli alla soluzione dei termini nel 2002), tanto che partiti ed associazioni anche cristiane avrebbero progressivamente rinunciato a fare crociate nella speranza di non perdere la loro base popolare. Ma oggi quanti e quanto ancora si impegnano in difesa della vita?

Un tentativo di dialogo: il Sinodo ›72

Il Sinodo svizzero si poneva all’inizio di questo processo. Verso la fine degli anni ’60 la Conferenza dei vescovi svizzeri ne promuoveva la convocazione come momento di riflessione e strumento per l’attuazione del Concilio Vaticano II, con la grande novità del coinvolgimento attivo del laicato. Su questa iniziativa si potevano appuntare speranze e progetti divergenti tra loro, con il rischio che si rendesse manifesta la fragilità del tessuto ecclesiale. Improntato al modello federale, il Sinodo avrebbe avuto una preparazione comune, uno svolgimento diocesano seguito da un coordinamento nazionale. Le parrocchie, gli ordini religiosi ed altri ambiti ecclesiali riconosciuti erano chiamati ad eleggere i membri dell’assemblea sinodale diocesana, cui si aggiungevano i delegati del vescovo. L’assemblea avrebbe votato l’entrata in materia, l’approvazione o l’emendamento dei documenti sottoposti al suo esame. I delegati avevano diritto di interpellanza e di mozione. I temi di riflessione, concordati a livello federale e definiti a partire dalle suggestioni emerse da vaste consultazioni, furono raccolti in 12 tematiche, affidate ad altrettante commissioni speciali (COSPE), che elaborarono, prima a livello interdiocesano e in seguito diocesano, un documento sottoposto all’esame delle assemblee sinodali. L’imitazione delle strutture politiche democratiche, basti pensare che i membri del Sinodo diocesano erano 90, veniva meno per il fatto che le decisioni divenivano operative solo se approvate dal vescovo. Un ultimo colpo di coda del vecchio clericalismo? No: come spiegava il prof. Eugenio Corecco in un saggio del 1972, intitolato «Parlamento ecclesiale o diaconia sinodale?» la democrazia, pur lodevole, era e restava una modalità di gestione del potere, ma la Chiesa non era un potere, bensì comunione con una dinamica propria. Non mancarono le resistenze all’impresa del Sinodo e neppure mancò chi lo considerò un parlamento, chiamando il vescovo a rendere conto delle sue scelte, ma mons. Giuseppe Martinoli non impedì il dialogo e seppe reggere il timone, risparmiando alla diocesi pericolose derive, come osservava mons. Corecco nell’omelia funebre del suo
predecessore nel dicembre 1994.

Antonietta Moretti,
docente di storia

8 Marzo 2021 | 11:45
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