Ticino e Grigionitaliano

Squarci luminosi che raccontano l’attesa di una possibile rinascita

Le poesie sono ricche di simboli, storie ed espressioni che possono toccarci l’anima. Sono talmente potenti da sintonizzarsi con gli strati più profondi del nostro essere. Quello che noi non riusciamo nemmeno a tradurre a parole, è raccontato dalla poesia con una chiarezza tale che sembra svelare i nostri più intimi segreti. In questi giorni di inizio novembre, dedicati alla memoria dei nostri defunti, il poeta Gilberto Isella ci propone di riscoprire la poesia di Giovanni Pascoli, «Novembre».

Il cristianesimo di Giovanni Pascoli (1855-1912), se così lo si può chiamare, è pervaso da venature panteistiche non riferibili a una precisa religione rivelata. Il divino, quando si manifesta, impregna semplicemente di sé lo «spirito della terra», il mistero dell’esistere, o sfocia in un diffuso sentimento di pietas. Più che di accenti cristiani veri e propri, per farla breve, la poesia di Pascoli risente del simbolismo sincretistico europeo in voga tra Otto e Novecento. Lo stile, che riflette una sensibilità psichica fuori dal comune, è fortemente innovativo e rappresenta un punto di svolta nella poesia italiana. Rinunciando alla descrizione in senso realistico, Pascoli evoca, lascia presentire e immaginare. Un velo dalla coloritura ambigua, ricco di chiaroscuri e spesso di malinconia, si stende su paesaggi, uomini, animali e oggetti, mettendo in luce quel dolore cosmico condiviso dall’essere umano e dalla natura cui già Leopardi aveva dedicato drammatici versi.

In questo toccante Novembre tratto dalla raccolta Myricae, composto di tre strofe saffiche (endecasillabi più quinario) cariche di rime e assonanze, e segnato da palesi allusioni al giorno dei defunti, l’ambiente presenta contorni sfumati, impressionistici sotto certi aspetti. Al riparo da ogni iconografia accessoria (qui manca perfino il cimitero, con le sue immagini convenzionali), il testo si articola intorno all’ossimoro conclusivo, di profonda valenza gnomica: «E l’estate,/ fredda, dei morti» . E ciò per indicare uno stato d’animo che fonde in un tutt’uno percezione della morte (il freddo) e attesa di una possibile rinascita (il sole chiaro, gli albicocchi in fiore). Posto di fronte agli enigmi del tempo e dello spazio, l’uomo prende coscienza del suo essere precario. Se la prima strofa sembra aggrapparsi alla speranza, accennando al temporaneo, illusorio tepore che caratterizza la cosiddetta estate di San Martino, le altre due sono dominate dalla tristezza, dalla sensazione che l’universo, unitamente al senso delle cose, sia in preda al vuoto: vuoto il cielo, cavo il terreno. Il «sole chiaro» cede il posto alle «nere trame», la serenità primaverile volge al cupo, la natura torna spoglia e sterile. Come corpicini esausti cadono le foglie, le piante si fanno scheletri, a testimoniare la fragilità della vita. E tuttavia questa poesia, grazie ai suoi squarci luminosi, ci riserva un sottile filo di ottimismo.

Novembre

Gemmea l’aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore…

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante

sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti.

2 Novembre 2021 | 07:52
Tempo di lettura: ca. 2 min.
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