Il Signore chiama in tanti modi

di Sr. Sandra Garay, mc
missionariedellaconsolata.org – 29 maggio 2016
L’attrazione verso il Sacro ed una chiamata ad essere missionaria ad gentes
Guardare in dietro per rivisitare la propria storia può essere un esperienza salutare e rinnovante. Cercare di trovare in qualche modo un filo conduttore, una sigla, una luce che dia un po’ di senso al proprio presente, doni prospettiva alle difficoltà del momento e ci confermi nella speranza che c’è un bene futuro che ci aspetta, ci può donare tanta pace e fiducia.
Certamente alla soglia dei cinquanta se si guarda indietro ci si accorge che si ha percorso un bel po’ di strada. Alcuni pezzi già non si vedono più, altri si son dimenticati, si ricorda qualche collina e qualche valle attraversati, ci sembra di risentire i fiumi rumorosi che ci hanno sfidato e quelli quieti che ci hanno dissetati. Rimane però come testimone del lungo viaggio la polvere nelle scarpe e il vento amico che ogni tanto ritorna a soffiare, tal volte più freddo, tal volte più soave, ma che è sempre lo stesso.
Pretendere allora di raccontare la propria storia intesa come vocazione dicendo tutti i perché, come e quando, va al di là delle capacità di qualunque meticoloso narratore, che inoltre io non sono. Riconosco d’altra parte che c’è ancora tanto di mistero per me. Perciò ho pensato di condividere con voi alcuni ricordi della mia infanzia che continuano a riscaldare il mio cuore e danno qualche luce al mio essere quest’oggi Missionaria della Consolata.

Un carissimo ricordo della mia infanzia non è collegato a un evento ma a un periodo. A quel tempo vivevo in un piccolo paesino di montagna dove c’era una cappellina che aveva come parroco un vecchio Frate Francescano. La catechesi allora era solo in vista alla preparazione sacramentale e i bambini che avevano ricevuto il sacramento pian piano perdevano l’abitudine di andare in chiesa. Un gruppetto di noi però, dopo aver ricevuto la Prima Comunione, sotto l’attenta e affettuosa guida del vecchio Frate, impariamo a fare i chierichetti. Così che cominciamo a partecipare quasi quotidianamente alla Santa Messa.
Il mio primo impegno fu suonare le campane la domenica. Ricordo come se fosse adesso come ero attaccata a quella corda tirando giù forte perché suonasse chiaro e contando bene quante volte per non inviare il messaggio sbagliato. Dopo ho imparato a servire la Messa, compito proprio dei chierichetti e finalmente il lavoro in sacrestia per preparare l’altare. Per me le Messe più belle erano quelle feriali perché oltre ad essere brevi quasi sempre c’erano effettivamente solo bambini. Per chiamare a queste Messe, anche se durante la settimana, si suonavano le campane. Noi bambini che giocavamo nei giardini delle nostre case all’ascolto del loro suono correvamo verso la cappellina. Eravamo un bel gruppetto e cercavamo di sederci tutti nelle prime due panche, i più piccoli ancora con le gambe pendolanti, mentre in vano tentavamo di metterci in silenzio per ascoltare la Messa. Sentivamo che la cappellina era tutta nostra ed eravamo contenti di stare lì con il Signore che si faceva presente solo per noi. Mi ricordo ancora con quale compenetrazione partecipavo allo svolgersi dell’Eucarestia perché sapevo che lì c’era Gesù.
Fuori dall’ambito della chiesa avevo un altro gruppo di amici molto vario. Alcuni erano piccoli, altri erano più grandi, alcuni più vivaci, altri più creativi, alcuni specialisti in combinare pasticci e altri allenati in rimediarli. Non so come sia adesso, ma in quel tempo nel mio paese i bambini, soprattutto nei caldi pomeriggi dell’estate quando erano in vacanza dalla scuola, perché incapaci di riposare dovevano trovarsi da soli il modo di sconfiggere la noia senza disturbare gli adulti che dormivano la «siesta». Mi ricordo che durante uno di quei giorni dopo pranzo, quando ero già un pochettino più grande, mi trovavo a leggere qualche storiella nel cortile di casa mia. All’improvviso, due dei miei fratelli arrivarono con una curiosa novità: due dei nostri amici si volevano «sposare.» Fino ad oggi non son riuscita a sapere se loro si volevano sposare o se li volevano sposare. Comunque, chiamata in causa e data la mia «vasta» conoscenza delle celebrazioni liturgiche, mi sono offerta a risolvere questa situazione. E così, cercando di fare poco rumore, tutto il gruppo è venuto nel cortile di casa nostra e abbiamo preparato e celebrato questo matrimonio. Due anelli di carta, una vecchia cassetta per altare, una sedia (non per sedersi ma per me perché chi celebra doveva essere alto), due testimoni e gli amici degli sposi. La cerimonia è andata molto bene: solenne, puntuale e breve nonostante ci sia stata una piccola predica. Finita la celebrazione e fatte le dovute congratulazioni tutti sono partiti per le loro rispettive famiglie. Non era passata ancora un’ora che vedo ritornare i miei fratelli con un’altra inaspettata richiesta: gli sposini vogliono che io disfi il loro matrimonio. Dopo qualche secondo per riprendermi da questo imprevisto cambio di desiderio ho dato loro la mia risposta con molta serietà: «Il matrimonio non si può disfare, rimarranno sposati per il resto della loro vita.» Mi fu poi riferito che la sposina non prese tanto bene la notizia e che il suo pianto fu così disperato che la sua mamma dovette intervenire. Non so come l’abbia consolata. Il certo è che quello è stato il primo e l’ultimo matrimonio che io ho celebrato. Quando ci ripenso ancora mi fa sorridere!
Penso che l’amore e il gusto che oggi provo per il sacro e la liturgia hanno in qualche modo la sua radice nei vissuti della mia infanzia. Ancora oggi mi sento attratta dal mistero di Dio presente nei sacramenti, in speciale l’Eucarestia. Crescendo però ho perso un po’ di quella freschezza e spontaneità e in cambio ho guadagnato in profondità e consapevolezza. In realtà è tanto il passato a illuminare il presente quanto il presente ha illuminare il passato. E’ tanto vero che gli echi della infanzia mi aiutano ad approfondire le strade della missione oggi quanto la vita missionaria mi aiuta a rivalorizzare l’amore per l’Eucarestia appresso appresso da piccola. Infatti è stata la missione, specialmente quella in Mongolia, attraverso la quale il Signore mi ha donato una conoscenza maggiore del suo mistero. Sono sempre più convinta che la esperienza di Dio e l’annuncio del suo Regno devono passare necessariamente attraverso la liturgia. I sacramenti non solo nascondono ma anche rivelano il mistero di Dio.
Come si può spiegare chi è Dio a chi non lo conosce? Non si può. Si può raccontare che cosa ha fatto Dio e secondo quel che ha fatto possiamo dire chi pensiamo che Lui sia. Ma spiegare chi è Dio, no.
Quando abbiamo cominciato la missione di Arvaiheer in Mongolia abbiamo deciso che fin dall’inizio avremo accolto tutti i simpatizzanti alla celebrazione Eucaristica. E’ lì che ho visto nascere la fede. All’inizio chi non conosce si sente perso e fa fatica a seguire il rito. Ma pian piano cominciano a percepire la presenza di qualcuno in mezzo a loro. Man mano che sono istruiti nella fede e aprono il loro cuore si accorgono che questa presenza li guarisce e li trasforma. Un giorno, senza sapere bene come, riconoscono Dio nella loro vita. Dio che si chiama Gesù, e che c’era già in mezzo a loro ma, come loro stessi dicono, non sapevano perché nessuno gliel’aveva mai detto. Quante volte ci hanno detto «come siete fortunati di aver conosciuto Gesù fin da piccoli, se anche noi l’avessimo conosciuto la nostra vita oggi sarebbe molto diversa.» E così cresce in loro, giorno dopo giorno, il bisogno di andare a Messa e non solo le domeniche. Anche oggi ad Arvaiheer, benché non ci sia una campana che chiama, ci sono quelli che imparano a sentirsi chiamati. Hanno anche loro conosciuto che Dio c’è, che si chiama Gesù e li aspetta nell’Eucarestia.
Tornando al mio racconto, crescendo ho avuto l’opportunità di conoscere altre realtà, scoprire nuovi orizzonti, cambiai e i miei interessi diventarono più complessi. La società, la famiglia e gli amici mi fecero capire che la mia ricchezza più grande era Gesù perché dava significato e valore alla mia vita. E ho pensato che Dio allo stesso modo poteva dare senso e gioia alla vita di tutti e che purtroppo alcuni ancora non sapevano che c’era un Dio che si chiama Gesù perché probabilmente nessuno glielo aveva mai detto. E mi sentì chiamata in un modo nuovo. Poi si capisce come è andata a finire la mia storia. Oggi ringrazio tanto il Signore per avermi chiamato a fare parte della famiglia Missionaria della Consolata.

26 Giugno 2016 | 07:00
Tempo di lettura: ca. 5 min.
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