Ticino e Grigionitaliano

San Giuseppe custode della sua famiglia oggi lo troviamo nel volto dei papà di Kiev

Di lui i Vangeli non riportano neppure una parola e l’iconografia classica, nei secoli, lo ha rappresentato talmente vecchio da sembrare il padre, se non addirittura il nonno della madre del Bambino: un’età inconciliabile con il ruolo di «padre», riconosciutogli espressamente dalla letteratura apostolica. Una figura, quella di san Giuseppe, di cui i Vangeli non trattengono neppure una parola e a cui la recente pubblicazione della lettera apostolica di papa Francesco, ha regalato oggi una rilettura urgente e bellissima. Qualche anno prima, ad occuparsi della figura del padre di Gesù, furono Johnny Dotti, pedagogista e insegnante all’Università Cattolica di Milano e padre Mario Aldegani, religioso della Congregazione dei Giuseppini del Murialdo che gli dedicarono il libro «Giuseppe siamo noi» (San Paolo edizioni), di cui ora è stata data alle stampe una nuova edizione aggiornata con alcuni testi della Patris corde di papa Francesco. Ne parliamo con Johnny Dotti, in occasione della Giornata del papà, che cade quest’anno in un contesto storico in cui si parla di una guerra che divide le famiglie.

In che cosa San Giuseppe può ispirare i padri che vediamo ritornare alla guerra, dopo aver portato in salvo, oltre confine, la loro famiglia?

Sì, è un’immagine fortissima. La parola «patria» ha la stesa radice di pater, e anche di patrimonio. Questi uomini tornano a difendere un patrimonio comunitario. Un patrimonio che andrebbe difeso armandosi di fede e riconoscendosi fratelli e sorelle, perché altrimenti si finisce per difendere la terra e il sangue. Giuseppe ci insegna che i figli non sono i figli del sangue, ma i figli dello spirito e i figli della fede. Mi piacerebbe che quando quei padri ci consegnano le loro mogli e i loro figli, ricevessero una «lettera» da noi: che non è una pistola o un mitra, ma è il messaggio di chi vuole stare vicino, aiutandoli a difendere il loro patrimonio, che è un’altra cosa che difendere la terra e il sangue.

E che cosa, gli uomini – al di qua e al di là delle frontiere – possono imparare su se stessi, rileggendo o meditando San Giuseppe?

I Vangeli ci raccontano che tutte le azioni di Giuseppe avvengono di notte: quattro notti quattro sogni, quattro azioni. Questo ci dice che non dobbiamo maledire la notte, ma prendersi cura del desiderio che ci ha tenuti svegli, ascoltando il sogno.

Ma chi oggi, se vogliamo attualizzare la narrazione dell’episodio dei sogni di Giuseppe è l’angelo che gli compare in sogno?

L’angelo, in questo caso, sono i bambini e le donne ucraine. Sono i morti di questa guerra. Ma sono anche le mamme dei soldati russi. L’angelo è il povero, quello che non decide ma che ci annuncia la verità.

Oggi, nel contesto in cui ci troviamo, di che verità stiamo parlando?

Dipende da come ci sveglieremo nella notte. Dipende da come l’attraverseremo. Dipende se sapremo prenderci cura del messaggio, dipende se ci sapremo trasformare, convertire, come è successo a Giuseppe. Per me non si tratta di fare grandi marce e proclami, ma di prendersi cura di quello che l’angelo ci mette accanto: le donne ucraine, i loro bambini. Non date solo pacchi, soldi, ma state vicino e sentite cosa succede, fatevi toccare e come dice l’angelo: non abbiate paura!

E in questa allegoria di cui ci parla, che ruolo ha Maria?

Maria è la pace. È l’accoglienza infinita, la disponibilità di ricominciare sempre. Giuseppe la prende con sé, non per sé. Senza strumentalizzarla. Non costruisce discorsi di potere ma di fiducia, guidandola in un viaggio che per lui inizia da Nazareth e termina a Nazareth – Nazareth è il simbolo della quotidianità- facendosi compagno di strada di una storia di cui lui, non conoscerà mai l’epilogo.

Corinne Zaugg

19 Marzo 2022 | 06:00
Tempo di lettura: ca. 2 min.
Condividere questo articolo!