Petrolio, acqua e terre vergini: il tesoro «maledetto» del Sud Sudan

La visita del Papa è stata posticipata, troppi rischi in una crisi che precipita sempre di più. Il Sud Sudan vive una stagione complicata e terribile: una guerra civile devastante, milioni di profughi, popolazioni allo stremo. E pensare che tutto era cominciato nel 2011 con la dichiarazione d’indipendenza, la separazione del Sud cristiano e animista con minoranza musulmane non radicali, dal Nord arabo, foriero di un islam aggressivo che guardava all’Africa come a una terra di conquista, almeno nelle intenzioni del suo leader, l’autocrate Omar al Bashir. Nel 2011, il potere passò nelle mani di Salva Kiir, presidente di etnia dinka, e del vicepresidente Riek Machar, di etnia Nuer. Nel 2013, tuttavia, è scoppiato un nuovo conflitto fra i due leader e i rispettivi gruppi etnici, il vicepresidente Machar è stato accusato di aver organizzato un colpo di Stato. Il potere è oggi nelle mani dei gruppi armati di dinka del presidente Kiir, che spadroneggiano, ma i ribelli nuer non sono da meno, anche se inferiori per armamenti e con minori sponsor internazionali (dietro la guerra etnica di facciata, tuttavia s’intravede soprattutto la volontà predatoria di gruppi di potere ristretti). E in fondo la semplificazione non spiega tutto: oggi nel Paese sono attivi almeno 7-8 gruppi armati, gli interessi dei Paesi circostanti e delle grandi potenze del mondo favorisce il traffico d’armi e la guerra, decine sono le etnie e gran parte della popolazione non voleva il conflitto. E allora per cosa si combatte? Petrolio naturalmente, ma anche acqua e terre vergini mai coltivate (40 anni di conflitti intervallati da periodi di relativa pace hanno conservato questo tesoro quasi intatto).

Le risorse sono la maledizione dell’Africa, o almeno di alcuni Paesi, spiega a Vatican Insider padre Daniele Moschetti per 6 anni, fino al dicembre scorso, Superiore dei missionari comboniani in su Sudan, una lunga esperienza in Africa e non solo: 11 anni in Kenya, un anno in Palestina e fra pochi mesi, con altri missionari, inizierà a svolgere un lavoro presso le Nazioni Unite cercando di dare un po’ di voce al sud del mondo. Secondo Amnesty International, «nel Sud Sudan è in corso una delle più gravi crisi umanitarie degli ultimi tempi: sono quasi un milione gli sfollati nella regione di Equatoria, mentre continuano impunite le uccisioni di civili e le violenze su donne e bambine». Secondo l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu, «il numero totale di persone fuggite dal Sud Sudan verso le regioni circostanti è ora di 1,6 milioni. Il nuovo tasso di persone in fuga è allarmante e rappresenta un peso impossibile da sostenere per una Regione che è considerevolmente più povera e le cui risorse si stanno rapidamente esaurendo. Nessuno, fra i Paesi circostanti, ne è immune. I rifugiati fuggono verso il Sudan, l’Etiopia, il Kenya, la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica Centrafricana. Quasi la metà delle persone in fuga è arrivata in Uganda, nelle regioni settentrionali del Paese la situazione ora è critica». Ci sono poi milioni di sfollati interni mentre gran parte della popolazione è alla fame.

Padre Moschetti, il quadro del Paese è a dir poco allarmante… 

«Oggi la situazione è abbastanza catastrofica. Siamo a sei anni esatti dall’indipendenza e a Juba (la capitale, ndr) non ci sono state celebrazioni ufficiali come avveniva in passato; d’altro canto siamo di fronte a uno sbandamento complessivo: c’è un crac finanziario gravissimo, la banca centrale non ha più dollari, c’è il 900% di inflazione; per capire che significa possiamo fare un paragone con l’Italia dove l’inflazione è dell’1%. Il valore del denaro locale non ha nessun peso, tutto viene dall’estero, tutto ciò che si mangia, che si usa. A causa della guerra iniziata il 15 dicembre del 2013 e poi di nuovo quando nuovi scontri si sono verificati l’anno scorso a Juba, in luglio, proprio un anno fa, ancor di più hanno lasciato il Paese ambasciate, Ong, volontari».

Ma oggi c’è una presenza di organismi internazionali, di missionari?

«Molte organizzazioni sono andate via dopo gli scontri di un anno fa, anche se le più grosse poi sono tornate. Però fanno ancora più fatica, perché il governo non riesce a garantire la sicurezza per gli operatori umanitari presenti, per i missionari. Dicono: noi non garantiamo la sicurezza degli operatori, dei missionari, perché poi vengono attaccati e uccisi, e questo in particolare in zone dove si sta portando cibo, medicine; così approfittano di questa situazione per dire che non hanno la possibilità di proteggere nessuno. Che tradotto significa: non diamo l’ok per portare cibo e acqua in queste zone perché manca la sicurezza. Si tratta di un modo subdolo per mettere in ginocchio le aree dove naturalmente ci sono ribelli, ma anche la popolazione».

La guerra però è solo «ricominciata» nel 2013, il conflitto ha radici molto più antiche…

«È un conflitto molto complesso. Bisogna partire dall’indipendenza del Sudan avvenuta nel 1956, il Paese prima era una colonia inglese. Già a quell’epoca c’era un gruppo di sud sudanesi che poteva prendere in mano la propria indipendenza nei confronti del nord, invece gli inglesi hanno lasciato tutto nelle mani del governo del Khartoum che diedi via al processo di islamizzazione; di conseguenza tutti i missionari, cattolici e protestanti, sono stati buttati fuori nel ’64. E proprio questo processo ha mobilitato l’America. Il Sud Sudan, l’obiettivo di raggiungere la sua indipendenza, ha infatti sempre messo d’accordo repubblicani e democratici degli Stati Uniti. Gli Usa hanno investito per questa ragione miliardi di dollari dagli anni ’70 e ’80 fino ad oggi, tutte le amministrazioni americane hanno sostenuto l’Splm (Sudan People’s Liberation Movement), ovvero l’esercito di ribelli che lottava contro Bashir, criminale internazionale (al potere dal 1989 con un colpo di Stato, ndr), ma nessuno ha veramente interesse a catturarlo».

Il fondamentalismo islamico ha dunque avuto un ruolo in questa storia…

«Ai tempi di Geore W. Bush, il Sudan, era inserito fra le nazioni «canaglia», perché da lì parte Osama Bin Laden fra l’altro. Bin Laden ha formato i primi gruppi militari, terroristi, esattamente a Khartoum. I primi attacchi ideati da Osama Bin Laden e messi in opera di Al Qaida non sono stati quelli contro le torri gemelle di New York, ma furono realizzati contro le ambasciate americane a Nairobi (Kenya) e a Dar Es Salaam (Tanzania), il 7 agosto 1998 (224 le vittime e circa 4mila feriti). Il primo attacco, dunque, è stato in Africa, all’interno del continente non fuori di esso. La risposta furono raid americani a Khartoum. Quindi il Sudan è stato sempre sulla lista nera e oggetto di embargo. La parte sud del Paese, quella che rientra nell’Africa nera (il nord è arabo, ndr), è cristiana al 50%, ci sono il 7 -8% di musulmani non fondamentalisti e poi animisti».

L’indipendenza del Sud Sudan quindi aveva molti spettatori interessati?

«Sì, del resto Museveni, presidente dell’Uganda che è un grande alleato degli Usa, così come il Kenya, indubbiamente hanno tratto vantaggio dal processo di indipendenza. Ma del resto tutti i Paesi che confinano con il Sud Sudan hanno grossi interessi. Il Paese ha infatti grandi risorse, non c’è solamente petrolio – in questo momento è il terzo giacimento dell’Africa – ci sono anche acqua, e terre vergini perché il Paese è stato attraversato da 40 anni di guerra (dal 1956 al 2005, fra Khartoum e gli indipendentisti del Sud, ndr), intervallati da dieci anni di relativa pace. Ma negli anni ’70 è scattata una sorta di caccia al petrolio, era infatti la stagione dell’austerity da noi, della circolazione a targhe alterne per risparmiare carburante. Così quando l’Opec, i Paesi arabi, hanno detto «basta non c’è più petrolio per voi», sono cominciate le ricerche di nuovi giacimenti e sono stati trovati anche quelli in Sud Sudan; da quel momento è iniziata la seconda guerra interna. Era il 1983. In generale possiamo dire che, da una parte, c’erano le grandi multinazionali europee e americane che volevano sfruttare le nuove risorse, dall’altra, il governo di Khartoum che non voleva mollare ciò che considerava suo. Allo stesso tempo il governo traeva dalla ricchezza del Sud le risorse per sviluppare il Nord lasciando però nell’arretratezza le regioni meridionali, senza scuole, in piena povertà. Da qui la lotta per l’indipendenza del Sud Sudan guidata dallo Splm, fino agli accordi firmati il 9 gennaio del 2005 a Nairobi, dove venne scelto un nero come vicepresidente dell’intero Sudan – e questa era una novità importante – John Garang (fondatore dell’Splm) che all’epoca non voleva la separazione del Sud (cui fu data comunque una certa autonomia)».

Nel 2011 però il Sud si separa…

«Oggi celebriamo un’indipendenza che il leader principale del Sud Sudan, Garang, non aveva mai voluto; al contrario Salva Kiir e altri gruppi militari sostenuti dagli Stati Uniti hanno sempre voluto che il Sud si sperasse dal Nord. In ogni caso l’unità del Paese era il tappo all’islamizzazione dell’Africa. Dentro questo conflitto c’è dunque un po’ di tutto: c’è il petrolio, c’è l’acqua, c’è l’agricoltura da poter sviluppare. Poi ci sono tanti interessi dei Paesi circostanti che hanno meno risorse. È come il Congo che è il Paese più ricco al mondo di risorse e purtroppo è fra i più poveri. Queste ricchezze diventano delle maledizioni, non diventano una benedizione per il popolo ma un arricchimento delle élites. E infatti tutti quelli che oggi sono al potere sono militari che ormai hanno messo la cravatta e conservano milioni di dollari sui loro conti in America in Inghilterra o altrove. Le loro famiglie vivono fuori dal Paese».

E voi missionari riuscite ad operare ancora nel Paese?

«Noi siamo in Sud Sudan dai tempi di Daniele Comboni, il nostro fondatore, che vi andò nel 1858; siamo nati in missione, e ci consideriamo parte integrante di questa storia, di questo popolo. Non siamo mai andati via, se non quando ci hanno espulsi, ma siamo sempre rientrati e abbiamo camminato insieme a questi popoli, passando da situazioni di schiavitù prima, poi per le varie guerre, il colonialismo, l’islamizzazione, e ora i nuovi conflitti civili e per il petrolio. Abbiamo perso due missioni negli ultimi anni, dal 2013 al 2017, perché ci arrivano tutti: i governativi, i ribelli. Due missioni importanti per noi dove facevamo formazione umana e spirituale, ma tutto è stato distrutto a causa della lotta fra governativi e ribelli. La gente è scappata. Ci sono un milione di sfollati solo in Uganda, poi tanti nella zona più fertile, nella provincia di Equatoria, dove le etnie locali non volevano in nessun modo entrare in guerra. Ma la pressione del governo e dell’etnia dinka che ora detiene il potere militare ed economico ha esasperato la situazione. In Sudan ci sono centinai di migliaia di profughi, in Etiopia quasi un milione, in Kenya circa mezzo milione. In questi mesi sono in Italia e vedo parlare della grande emergenza migranti, mi fa rabbia e ridere allo steso tempo. I Paesi africani si stanno portando milioni di persone sulla propria pelle».

Quali potenze straniere hanno maggiori interessi in Sud Sudan?

«Americani inglesi, francesi, cinesi, russi e grandi multinazionali hanno interessi in Sud Sudan. È stato chiesto 4-5 volte l’introduzione dell’embargo delle armi, ma Paesi come Russia e Cina sono contrari e direttamente o indirettamente ostacolano questa misura. Si tenga conto che il governo del Sud Sudan nel 2014 ha speso un miliardo di dollari in armamenti e ipotecato pozzi di petrolio che in questo momento non ha ancora aperto; stanno svendendo il Paese per avere armi e schiacciare la ribellione, non pensano minimamente al futuro alla loro gente. Papa Francesco doveva andare ad ottobre in Sud Sudan insieme all’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, primate anglicano, ma la visita è stata spostata per motivi di sicurezza. Sarebbe però un viaggio importantissimo perché le Chiese stanno facendo un gran lavoro e sono le uniche istituzioni credibili; la comunità internazionale prima ha dato credito al governo, poi ai ribelli, l’unico baluardo sono le Chiese le quali fra le altre cose fanno un gran lavoro di lobbying advocacy e di informazione, perché le parti in lotta non vogliono che si sappia quello che sta accadendo nel Paese così possono andare avanti con delle atrocità mai viste, nemmeno nel conflitto con gli arabi (il conflitto per l’indipendenza con il Nord del Sudan pure costato milioni di morti). Serve una presa di coscienza più profonda della comunità internazionale. Neanche i campi profughi sono al sicuro, neanche quelli protetti internazionalmente, anche lì sono entrati soldati e hanno fatto strage di donne, anziani, bambini».

(Francesco Peloso / Vatican Insider)

 

13 Luglio 2017 | 08:16
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