Personalità e azione di Benedetto XV – Un Papa nella guerra

È necessario un grande sforzo di ricerca per capire i molti risvolti della personalità e dell’azione di Papa Benedetto XV. Spesso la sua figura ha rischiato di venire quasi compressa e quasi trasformata in una semplice premessa a quella frase memorabile, lapidaria al pari di un giudizio profetico, della prima guerra mondiale come «inutile strage», riducendo la sua azione a un puro contorno a quell’atto. Mi guardo bene dal sottovalutarlo, ma credo che esso trovi il suo senso profondo in una disamina più ampia della sua vicenda.

Fin dalla prima Enciclica Ad beatissimi, del novembre 1914, Benedetto XV rifiutò di schierarsi con l’Intesa o gli Imperi Centrali, optando per una stretta neutralità, che solo a occhi ingenui sarebbe potuta apparire come una scelta di comodo e indolore. La sua posizione e quella della Chiesa gli sarebbe costata un dileggio diverso da quello anticlericale del Risorgimento italiano, ma di rango internazionale: Le Pape Boche per la stampa francese, il Franzosenpapst in quella tedesca, Pilate XV per il romanziere Léon Bloy e, per il patriottismo italiano in cerca di benedizioni, l’ingiurioso «Maledetto XV».

Alle sue spalle Benedetto XV aveva un impianto dottrinale di lettura della storia di quel passaggio di secolo fondato su una tradizione che era incline a vedere la guerra o dentro i parametri della cosiddetta guerra giusta della tradizione tomista o come la sanzione dell’apostasia moderna; non certo come il dispiegarsi di una minaccia radicale all’annuncio cristiano. E, rispetto a questo bagaglio culturale che era il suo, Benedetto XV cercò la coniugazione — sempre difficile in tutti i tempi — fra il principio paolino dell’obbedienza ai governanti (Romani 13, 1 è ovviamente citata nella Ad beatissimi) e il principio escatologico della pace come strumento di annuncio del Vangelo del Regno di Dio.

Coniugazione delicatissima in quel contesto bellico nel quale quasi 10 milioni di soldati persero la vita e milioni di uomini si trovarono bisognosi di un soccorso in cui il papato si prodigò senza sosta — con riconoscimenti scontati e meno scontati, come quel monumento che la Turchia gli fece erigere nella cattedrale latina di Santo Spirito a Istanbul, officiata per dieci anni dal futuro Giovanni XXIII.
Questo profilo del papato, che è oggi dato per scontato da tutti, a tutte le latitudini politiche, è un’invenzione di Benedetto XV; così come furono sua invenzione alcune tendenze che segneranno tutto il secolo XX.

Egli infatti è anche l’uomo — fa bene questo appuntamento scientifico a dedicargli nella giornata di domani, così partecipata e ricca di interventi, tanta attenzione — che già nella sua enciclica programmatica Ad beatissimi manifesta l’intenzione di porre fine alla fase di contrasto più acuta del modernismo, aprendo la via a quella Chiesa che preferisce la medicina della misericordia alle armi della severità.
È il Papa che portò a compimento il primo Codex Iuris Canonici col quale la Chiesa cattolica adottava lo strumento codiciale (dopo secoli di trasmissione del diritto attraverso il Corpus, che aveva fatto di questa città il centro del pensare giuridico-politico e della coscienza dell’occidente, studiata dal professor Paolo Prodi): e che dunque confessava «la grandezza e la miseria» (per usare un’espressione cara a Giuseppe Dossetti) di un diritto che si espone alla disamina critica del giurista, sapendo di essere sempre insufficiente davanti allo scopo di comunione della vita che regola e di salvezza della vita a cui apre.Quest’uomo e questo pontificato meritano uno studio accurato che appare necessario a chi conosce bene lo stato degli studi su questo diplomatico cresciuto alla scuola del cardinale Rampolla, che ancora oggi — come ho ricordato — nella memoria collettiva è il Papa che osò chiamare «inutile strage» la guerra.
La grande guerra era stata auspicata, attesa, perfino vezzeggiata da un’intera cultura: che con la sola teoria di Sigmund Freud mescolava vitalismo e violenza, nell’ingenua e aberrante attesa di un lavacro sanguinoso, che sarebbe stata invece la catastrofe politica, civile e morale dell’intera Europa.Papa della guerra e nella guerra, Benedetto XV non apparve per questo di particolare interesse nel discorso pubblico e negli studi degli anni Venti e Trenta. Osservo soltanto che si cimentò con la sua biografia solo il Prevosto di Chiuduno, Francesco Vistalli, amico dell’allora delegato apostolico Roncalli, che subito dopo la grande guerra era stato «portato» a Roma dagli amici del «suo» vescovo Giacomo Maria Radini per i primi compiti di servizio alla Santa Sede.

Negli anni finali della segreteria di Stato del cardinale Gasparri, il Papa genovese viene lodato, non certo a torto, come colui che «nell’imperversare della grande guerra ha gridato all’inutile strage»: la complessità del suo pontificato e la vita di governo e diplomatica restavano solo uno sfondo, presto reso illeggibile da un’altra guerra, da altri papati, dalla nuova Europa che usciva divisa dalle macerie del nazifascismo.
E dunque, nonostante alcuni studi degli anni della seconda guerra mondiale, nel 1955 Ferdinand Hayward poteva ben dare alla sua biografia di Papa Della Chiesa un titolo che ogni tanto ritorna a galla: Un pape méconnu. Era l’inizio di una nuova stagione di ricerca, nella quale alcune riviste italiane si impegnarono a fondo, convocando un convegno internazionale a Spoleto, «Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale». Le riviste Civitas, Humanitas, Rivista di storia della Chiesa in Italia, Studium e Vita e Pensiero affidarono il convegno a Mario Bendiscioli, Gabriele De Rosa ed Ettore Passerin d’Entrèves, che fecero studiare e studiarono l’azione diplomatica della Santa Sede, la condotta dei cattolici italiani e non e l’atteggiamento del cattolicesimo internazionale davanti ai problemi della guerra e della pace.

Quel convegno segnò un momento importante anche per la Santa Sede, perché fu l’occasione per un lavoro del P. Martini sulla «Nota ai capi delle potenze belligeranti» del 1° agosto 1917 basato sulle carte, allora inaccessibili, della Segreteria di Stato: carte che sarebbero state aperte a tutti dopo i lavori di classificazione dell’archivio segreto vaticano nel 1984 e che — come talora accade alle carte vaticane — molti ne invocano l’accesso quando sono chiuse, ma non troppi si applicano a studiarle quando sono aperte.
Un altro convegno, organizzato da Giorgio Rumi su «Benedetto XV e la pace», tornava qualche anno dopo sul tema, dando il via a numerosi studi che si sarebbero accumulati con monografie, ricerche e saggi (si segnalano i lavori di Jacques Fontana, Hermann-Josef Scheidgen, Annette Becker, Wilhelm Achleitner, e del decano degli storici della Chiesa del Novecento, il canonico di Lovanio Roger Aubert) fino al 1999, quando la biografia di John Pollard riproponeva la questione del The unknown pope. Fino al grande lavoro di monsignor Antonio Scottà, che in due ampi volumi, pubblicati rispettivamente nel 2002 e nel 2009, ha illustrato nel dettaglio l’episcopato bolognese e il pontificato, offrendo la biografia più completa di Giacomo Della Chiesa e guadagnando il rispetto e la riconoscenza di tutti gli studiosi.

Qualcuno osserverà giustamente che, quando Scottà afferma che al centro dell’azione di Benedetto XV c’è «la dignità della persona umana, immagine di Dio presente nel suo spirito», adotta un linguaggio che il Papato avrebbe usato qualche anno dopo. L’osservazione è esatta. Tuttavia, credo ugualmente che sia importante per far capire la differenza sostanziale fra coloro che «diplomaticamente» sacrificarono vite su vite nella guerra di trincea e un Papa che fu «diplomatico» nel senso più alto del termine, affermando, con le parole proprie di un mestiere delicato, la sollecitudine per l’uomo reale e la vita concreta delle comunità civili e religiose; e insieme un Papa che toccò con mano come promuovere la pace non sia qualcosa di estrinseco alla missione della Chiesa, ma parte essenziale del suo compito davanti alla storia e davanti al Vangelo.

In Della Chiesa questo era uno stile. Come infatti ci ricorda proprio Scottà, anche l’inchiesta che nel 1887, per incarico del cardinale Rampolla, il giovane Della Chiesa svolse fra i vescovi italiani, per sondarne l’atteggiamento in merito alla questione romana, aveva questo scopo: fornire al suo mentore, il cardinale Rampolla, una percezione di come un soggetto allora privo della cornice istituzionale — che le avrebbe successivamente dato Paolo VI – avrebbe potuto costruire o incrinare un disegno di conciliazione che avrebbe potuto chiudere con qualche decennio di anticipo la questione romana.
Per questo Papa Benedetto si inserisce in un filo rosso che farà della pace l’obiettivo primo della diplomazia pontificia: quel filo rosso che va da allora alla Pacem in terris di Papa Giovanni XXIII, dalla Evangelii nuntiandi di Paolo VI alla Evangelii gaudium di Papa Francesco, il quale lo interpreta ponendo con ferma costanza davanti agli occhi di tutti il dramma dei rifugiati, che le guerre odierne sospingono verso l’Europa.Come mostrano opere più recenti (dal volume tedesco di Jörg Ernesti a quelli dei francesi Xavier Boniface, Marcel Launay o Yves Chiron, dello spagnolo Pablo Zaldívar Miquelarena), Benedetto XV non è più uno sconosciuto. Tuttavia il processo di costruzione di una figura di Benedetto è certo aperto a uno sforzo di intelligenza ulteriore, di cui penso potrebbe giovarsi anche il nostro presente incerto e dolente.
Benedetto XV è il Papa che incontra il Novecento e per la prima volta incontra attese contrapposte. Ciascuno si aspetta da lui qualcosa e sembra che ognuno abbia ragioni di delusione: finisce con lui il tempo della prevedibilità anche politica della Santa Sede, quello in cui il papato replica degli schemi già visti, e inizia a portare dentro un tempo tragico convinzioni spirituali e visioni del mondo che cambiano di senso nel nuovo contesto. È questo — mi chiedo — un cambiamento percepito e come questo modifica il modo di studiare una figura pubblica come quella di Benedetto XV?

Benedetto XV è anche il Papa che deve vedere l’orrore: non che prima non ci fossero stati grandi ecatombi o guerre sanguinose, ma lui per primo vede le masse che hanno fatto irruzione sulla scena politica usate come carne da cannone e sperimenta la sordità del mondo davanti alla «pulizia etnica» che stermina gli armeni, descritti come agenti dell’imperialismo russo, e perseguitati con una ferocia che lui definì come un «annientamento» nel Natale del 1915.

Le parole e i gesti di Papa Della Chiesa aprono una via: la Chiesa non deve solo decidere cosa dire, ma anche cosa fare e non a caso verrà percepita come una «seconda Croce Rossa». Come resta però traccia leggibile del loro lavoro di ricerca di segni e dichiarazioni che oggi possono apparire piccoli, ma che hanno segnato la rottura dell’isolamento in cui la Santa Sede era stata tenuta e alla quale si era abituata?

di Pietro Parolin

4 Novembre 2016 | 08:51
Tempo di lettura: ca. 6 min.
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