L'abate Mauro Lepori.
Ticino e Grigionitaliano

Padre Mauro Lepori ospite del Meeting di Rimini per parlare della biografia su Corecco

Accanto ai numerosi incontri, mostre e spettacoli al Meeting di Rimini è presente anche il «BookCorner», l’angolo dei libri, nella forma, anche per questa edizione, di una collana di podcast online gratuiti che è possibile scaricare sul computer o sullo smartphone o ascoltare in streaming. Una modalità innovativa, adottata l’anno scorso a causa della pandemia e che è stata molto gradita dal pubblico. Tra i libri selezionati quest’anno c’è anche la biografia «Eugenio Corecco. La grazia di una vita» di Antonietta Moretti, edita da Cantagalli – EU Press FTL. Ne ha parlato padre Mauro Lepori, abate generale dei Cistercensi. Qui di seguito un estratto dal suo intervento nel podcast.

La lettura della biografia di don Eugenio Corecco, per me è stata una grande provocazione, una provocazione che di fatto dura da quando mons. Corecco è tornato al Padre. La morte è il momento in cui la paternità che una persona ha esercitato sulla vita di un altro diventa eredità e quindi responsabilità.

Io sono sempre stato cosciente della grandezza e del valore della vita di Corecco, ma sono grato alla biografia così rigorosa e di ampio respiro di Antonietta Moretti perché ci mette in mano un po’ tutti i fili della storia della sua vita, certamente senza esaurirli, per cui uno si rende conto che l’esperienza che ha fatto lui è solo un tassello di un grande mosaico di rapporti, di parole, di opere, di desideri. Riconoscersi tassello di un grande mosaico non è una riduzione, ma una possibilità per accorgersi che ogni vita ha un valore assolutamente personale, eppure, proprio per questo, assolutamente universale. In fondo si tratta di riconoscere la verità di ogni persona alla luce del mistero della comunione, cioè nel mistero della Chiesa, sposa di Cristo.

Educatore appassionato

Se tutte le parti del libro mi parlano di questo, quelle che toccano di più la mia storia e vocazione sono da un lato i capitoli sul suo ruolo educativo, soprattutto esercitato nella convivenza con una dozzina di studenti e seminaristi nella sua casa di Rue de Gambach a Friborgo, dall’altro lato i capitoli sul suo ministero pastorale, che ha sempre esercitato fin dall’ordinazione sacerdotale, ma che negli anni dell’episcopato ha avuto piena fioritura e fecondità.

Nel primo periodo, quando per 5 anni vissi nella sua casa, l’aspetto che poi ho riconosciuto più determinante per me della sua persona è stato la sua disponibilità a farsi dimora dell’altro. Non ha solo deciso di vivere con noi; non ha solo voluto mettere a nostra disposizione una casa grande e bella: si è fatto lui stesso dimora per noi. La sua vita era espressione della Chiesa come luogo in cui ci è donato e offerto di poter vivere con verità e pienezza. Corecco era una dimora per noi.

Lui era certamente l’assoluto opposto di tante paternità abusive che oggi fanno sanguinare la Chiesa, perché nel rapporto con don Eugenio si era come obbligati ad essere liberi. Ma una libertà in cammino perché ogni persona è chiamata dal Signore ad una pienezza di vita di cui solo Dio conosce il mistero. Chi si fa dimora di una libertà in cammino, non chiude mai la sua porta sull’altro: la lascia sempre aperta, appunto perché l’altro possa fare il suo cammino. Una libertà in cammino ha certamente bisogno di stimoli, di correzioni, di luce, di grazia di Dio e, soprattutto, di infinita pazienza. La paternità di Corecco ci offriva tutto questo, senza che noi ce ne accorgessimo, almeno sul momento. Con Corecco ho capito che la pazienza è la libertà del padre nei confronti del figlio. Una libertà spesso sofferta. Una libertà che non rimane libera se il padre non prega. E Corecco – anche qui senza darlo troppo a vedere –, era un uomo di preghiera, era fedele alla preghiera, quella vera, quella che domanda, quella che si affida; forse per questo una preghiera molto attaccata alla preghiera della Madonna, come quella degli apostoli nel Cenacolo.

Vescovo e pastore

Della maturità pastorale di don Eugenio, soprattutto negli anni dell’episcopato e della malattia, che lui non ha mai dissociato dalla sua missione, vorrei sottolineare solo un aspetto, che ho sperimentato di persona. Noi vediamo un pastore, un vescovo, estremamente attivo, pieno di iniziative, di idee, molto fecondo nell’insegnamento offerto ad ogni ambito o livello del popolo di Dio e della società civile. Neppure la malattia lo ha veramente frenato in questa attività pastorale appassionata.

Proprio in quegli anni, il cammino della mia vocazione, ormai monastica, fu chiamato alla paternità, cioè mi sono ritrovato a diventare padre come lui. Corecco aveva un grande senso ecclesiale della vocazione. Se la Chiesa chiamava qualcuno ad una paternità, lui la riconosceva con rispetto. Nel mio caso ho visto questo fin dal giorno in cui il mio abate mi ha nominato maestro dei novizi, poi quando la comunità mi ha eletto abate. Per lui era come quando da un seme apparentemente insignificante sboccia una pianta. Quello che però mi ha più colpito nel corso di quegli anni fu il fatto che il vescovo Eugenio aveva l’umiltà di riconoscere la paternità di un figlio facendosi figlio lui stesso. Era come se Corecco mi insegnasse, e mi insegna tutt’ora, ad essere padre con un cuore di figlio, ad attingere la paternità dalla figliolanza, l’autorità dall’obbedienza. In fondo è così che Cristo stesso ha vissuto la sua paternità, la sua autorità. Non solo nel rapporto con Dio Padre, ma anche con ogni impercettibile segno di autorevolezza che vedeva negli altri, soprattutto nei piccoli. Sottolineo questo aspetto, anzitutto perché è un punto di umanità e direi di santità in cui la testimonianza di don Eugenio ha valore per tutti, per tutte le vocazioni e stati di vita.

La grazia di una vita

La sua testimonianza di vita penso sia necessaria per la Chiesa di oggi, nelle sfide che la Chiesa vive oggi. Il libro descrive bene quanto il papato di san Giovanni Paolo II abbia stimolato e reso fecondo il ministero pastorale, ma anche intellettuale di Corecco. Certamente, se non fosse scomparso così prematuramente, il vescovo Eugenio avrebbe vissuto con intensa simpatia il papato di Benedetto XVI, a cui era legato da tanti anni. Ma sono convinto che il suo stile pastorale, il suo senso della Chiesa, il suo giudizio su tanti problemi ecclesiali e sociali, e anche la lungimiranza della sua impostazione canonistica, avrebbero trovato nel papato di Francesco un ulteriore ambito per sciogliere le vele del suo amore alla Chiesa, di cui aveva molto approfondito la natura sinodale. Molto importante, oggi più che mai, è il suo senso profondo del valore e della complementarietà sinfonica di ogni vocazione e stato di vita nella Chiesa. E certamente sarebbe stato sensibile al richiamo di papa Francesco ad una Chiesa in uscita, missionaria nel mondo d’oggi, valorizzando per questo tanti carismi antichi e nuovi. E contro il degrado del clericalismo abusivo, quanto è importante la sua attenzione all’umano e alla libertà nella formazione comunitaria dei giovani alla fede e alla vita come vocazione.

di Padre Mauro Lepori, Abate generale dei cistercensi

L'abate Mauro Lepori.
18 Agosto 2021 | 15:05
Tempo di lettura: ca. 4 min.
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