«In Bosnia siamo confrontati con una situazione mai vista prima»

«Stiamo inviando legna da ardere, e cisterne di acqua per bere e lavarsi. Alle porte dell’Europa, a tre ore di auto dall’Italia. Da oltre un mese. Non avrei mai immaginato una situazione del genere». Sergio Malacrida, 50 anni, è responsabile dei progetti nell’Est Europa per la Caritas di Milano. Di emergenze ne ha viste tante, ma una situazione come quella dei profughi a Lipa, nel nord della Bosnia, lo lascia senza parole. In questa zona montuosa a trenta chilometri dalla Croazia (e dunque dall’Unione Europea) sono bloccati centinaia di migranti: 900 secondo le autorità locali, oltre 1500 per gli operatori delle Organizzazioni non governative. Molti di loro erano ospiti al campo profughi di Lipa, allestito ad aprile 2020 nel pieno dell’emergenza Covid. Poco prima di Natale il campo è andato in fiamme lasciando tutti all’addiaccio. Da allora, cinque settimane dopo, è successo poco o nulla. L’esercito bosniaco ha attrezzato una tendopoli di fortuna, ma continuano a mancare energia elettrica, acqua potabile, servizi igienici. E le temperature scendono spesso sotto lo zero.

Sergio Malacrida, perché si è venuta a creare questa emergenza?
Ormai dal 2018, la Bosnia è un collo di bottiglia. Qui arrivano i migranti della rotta balcanica che provano a entrare in Europa attraverso la Croazia, ma spesso vengono respinte ai confini. Secondo le nostre stime, dal 2018 sono transitate in Bosnia circa 70mila persone.

Chi sono i migranti di Lipa?
In maggioranza, quelli che noi chiamiamo single men: uomini che viaggiano in solitaria. Vengono dal Medio Oriente, in particolare da Siria, Iraq o Iran. Ma anche da più lontano: Afghanistan, Pakistan, Bangladesh. Alcuni cercano di raggiungere le famiglie che si sono stanziate da anni in Europa. Altri invece vogliono trovare nuove opportunità di lavoro e inviare denaro ai parenti in patria. Non bisogna pensare a un’immigrazione soltanto di «disperati»: tra i profughi ci sono anche ingegneri, medici, professionisti di vari settori. Le storie di chi si mette in viaggio sono tante e differenti. E molti sono anche i minori non accompagnati.

Caritas Ambrosiana era già attiva nella zona. Come mai?
Da tempo eravamo presenti con delle attività nella cittadina di Bihać, a 30 chilometri da Lipa. Per esempio gestiamo un social café, uno spazio di aggregazione in cui diamo anche assistenza a chi è in difficoltà. Negli ultimi mesi ci sono stati una serie di eventi che hanno fatto precipitare la situazione. Prima lo scoppio del Covid, che ha richiesto la creazione del campo di emergenza a Lipa gestito dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). Poi, a settembre, la chiusura di un altro campo, proprio a Bihać, in un’ex fabbrica di frigorigeri: qui vivevano circa 900 persone. Infine l’incendio a Lipa, che comunque l’OIM aveva già deciso di chiudere. Così si è arrivati al dramma di oggi.

Come si potrebbe risolvere l’emergenza?
Ci sarebbe una soluzione per accogliere almeno una parte dei profughi, ovvero ripristinare il campo di Bihać. Ma le autorità locali non vogliono: il campo era stato smantellato per la pressione della popolazione locale infastidita dalla presenza dei migranti. Il governo nazionale bosniaco non interviene, le istituzioni europee non si muovono: e in questo stallo, centinaia di persone vivono in condizioni disumane.

Ai telegiornali si sente parlare di persone morte a causa del freddo.
Non abbiamo notizie certe, ma è molto probabile che sia così. Il flusso migratorio non si ferma e, mancando i centri di accoglienza, non è possibile censire le persone di passaggio. Spesso i profughi si ritrovano a guadare dei fiumi gelidi. E non dimentichiamo che l’area intorno a Lipa ha ancora molte zone con mine antiuomo, residui della guerra degli anni Novanta.

Chi è chiamato a farsi carico di questa situazione?
In primo luogo le istituzioni europee, che finanziano i Paesi extra-UE come la Bosnia (o come la Turchia) perché si occupino dei migranti, ma poi non intervengono davanti alle emergenze. Del resto anche all’interno dell’Europa, come nell’isola greca di Lesbo, i campi profughi sono ancora in condizioni pessime.

I media stanno raccontando la situazione di Lipa. Cambierà qualcosa?
Constatiamo un risveglio delle coscienze: le immagini non lasciano indifferenti. C’è stata anche tanta solidarietà, e tramite il sito di Caritas Ambrosiana dedicato alle donazioni abbiamo raccolto vari aiuti e contributi. Ma è evidente che le cose cambieranno solo grazie a interventi strutturali, in particolare riguardo alle politiche migratorie europee. Auspichiamo che le istituzioni, davanti a quello che sta accadendo, sentano un impulso a rivedere il modo con cui si affronta la questione delle migrazioni.

Gioele Anni

30 Gennaio 2021 | 06:00
Tempo di lettura: ca. 3 min.
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