Giulia Civitelli
Libri

Il mio sogno: «Medico senza frontiere!»

«Medico senza frontiere! Quando frequentavo ancora la scuola guardavo con ammirazione documentari e leggevo libri su chi lavora per un mondo più giusto e pensavo: un giorno anch’io partirò e mi impegnerò come fanno loro. Per questo decisi di studiare medicina, inquietata dalle impressionanti diseguaglianze presenti a livello mondiale e dalle tante morti ingiuste da esse causate». Racconta così la sua storia Giulia Civitelli nel libro «Inatteso,

Testimonianze che pro-vocano i giovani», edizioni Fontana Di Siloe, 2018, uno dei tanti libri usciti in questo periodo sul tema dei giovani. Giulia, medico, nata a Roma nel 1985 è entrata nelle Missionarie Secolari Scalabriniane, un Istituto secolare della famiglia scalabriniana che vive e opera nel mondo dei migranti. Ecco la sua storia.

Pur essendo cresciuta in una famiglia credente, nel periodo dell’università mi ero allontanata dalla Chiesa, perché non riuscivo ad accettare la vita di quei cristiani che Papa Francesco definisce «da salotto» o «da museo.» L’inquietudine che sentivo mi portò a partecipare ad un corso sulle tematiche della cooperazione allo sviluppo e dei diritti umani tenuto dal VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo), un’organizzazione non governativa legata alla famiglia salesiana. Andai mossa dall’ideale di un mondo migliore e lì mi capitò l’incontro che cambiò la mia vita. Quando partecipai la prima volta, infatti, non sapevo che le serate iniziavano con un «cammino di fede». L’ascolto della Parola di Dio, commentata e applicata alla vita, aprì in modo nuovo i miei occhi sull’amore immenso e gratuito che Dio Padre ha per ciascuno di noi. Ricordo che mi colpì particolarmente la spiegazione della parola «misericordia», la cui etimologia indica la contrazione delle viscere di una madre quando abbraccia suo figlio. Dio ci ama così!

Scoprii che nel Vangelo si trovava ciò che il mio cuore desiderava più profondamente. Acquistai una Bibbia così da averne una mia copia personale e più la conoscevo più cresceva in me lo stupore per questo Dio che non è un’idea lontana ma una persona, Gesù di Nazaret, venuto sulla terra in un preciso momento storico per farci conoscere il vero volto del Padre. Per questo, per amarci «fino alla fine» e salvare tutta la nostra umanità, non si era fermato nemmeno davanti alla prospettiva di morire nel modo peggiore.

Un Dio che muore in croce: una follia! Di questa follia mi innamoravo sempre di più e da questa mi veniva la forza per continuare a cercare la strada concreta per impegnarmi a favore di chi restava ai margini della società.

In quel periodo mi venne incontro l’opportunità di andare per un mese in Etiopia e di condividere la vita in un ospedale gestito dall’organizzazione non governativa italiana Medici con l’Africa CUAMM. La realtà che incontrai fu quella di una struttura sanitaria con poche risorse, dove bambini e adulti morivano per malnutrizione, polmoniti, gastroenteriti. Quell’esperienza fu allo stesso tempo dolorosa e ricca di opportunità, tanto che nella preghiera mi trovavo a chiedere al Signore: «Perché sei così buono con me?». Intuivo che tutti i doni che stavo ricevendo, primo tra tutti la riscoperta della fede, portavano con loro una grande responsabilità.

Dopo la laurea in Medicina decisi di continuare il percorso di studi con la specializzazione in Igiene e Medicina preventiva (Sanità pubblica) per occuparmi degli argomenti maggiormente legati alla giustizia sociale e all’equità. Mi interessava cercare le reali cause delle diseguaglianze che avevo potuto vedere, toccare, odorare e capivo che per questo era necessario lavorare su quelli che sono chiamati «i determinanti sociali di salute». Si può pensare di curare malattie legate alla povertà e alle fragilità sociali semplicemente con i farmaci?

A Roma continuavo a frequentare come volontaria il poliambulatorio per migranti della Caritas Diocesana. Lì avevo la possibilità di incontrare i volti più diversi dell’umanità migrante, in particolare persone in condizioni più svantaggiate. Ogni incontro apriva una nuova finestra sul mondo. Era dunque un periodo in cui iniziavano tanti nuovi ed interessanti progetti, eppure dentro di me rimaneva un’insoddisfazione profonda. Cominciai a rendermi conto che il mio cuore davvero – come faceva notare sant’Agostino – «non aveva pace fino a che non riposava in Dio»: solo Lui poteva colmare la mia sete. In quel tempo iniziai a partecipare all’Eucaristia tutti i giorni. Il fatto di aver iniziato una strada che mi permetteva di approfondire i temi che avevo a cuore e di servire la causa dei più emarginati non mi bastava. Non mi bastava essere lì con la competenza professionale. Continuavo a chiedermi quale fosse il mio progetto di vita e le risposte che trovavo aprivano la strada a nuove domande che tenevano viva la mia ricerca.

Nell’estate del primo anno di specializzazione partecipai agli ultimi giorni del campo estivo organizzato dalla comunità delle Missionarie Secolari Scalabriniane a Solothurn in Svizzera. Al Centro Internazionale G.B. Scalabrini trovai un luogo di incontro tra giovani di diverse provenienze, arrivati da vicino e da lontano, tra loro anche richiedenti asilo, rifugiati e giovani con radici migratorie in famiglia. In quei giorni fu possibile vivere un incontro alla pari, approfondendo insieme il dono della fede e scoprendo in modo nuovo, nella semplicità e nella concretezza del quotidiano, la dimensione della «cattolicità» della fede cristiana. Rimasi particolarmente colpita dalla visione profetica del Vescovo G.B. Scalabrini (1839-1905), apostolo dei migranti, cui si ispira la Famiglia Scalabriniana.

Proprio in quel luogo speciale Dio, che sempre ci precede, mi raggiunse con una grande sorpresa, che iniziò a non farmi dormire dalla prima sera dopo il mio arrivo. Fino a quel momento non avevo mai chiaramente pensato alla strada della consacrazione… Forse, soprattutto oggi, viene vista come una scelta di altri tempi e spesso tanti giovani non la prendono nemmeno in considerazione. Solo al pensiero della parola «chiamata» o «vocazione» dentro di me dicevo: «no no, aspetta un attimo, non è questo il mio progetto!». Conoscendo in quei giorni le missionarie e la loro vita interamente offerta a Dio, rimanevo sempre più affascinata da questa possibilità di «consacrazione nella secolarità». Essere sale e lievito di Vangelo nelle situazioni ordinarie della vita, guardare con stima e fiducia ad ogni realtà umana e, in particolare, alla realtà dei migranti e dei rifugiati, spesso vittime di un sistema ingiusto e allo stesso tempo anticipatori di un futuro in cui ogni uomo si possa riconoscere appartenente all’unica famiglia umana.

Sentivo che, come Maria, anch’io dovevo affidarmi: in pochi giorni dissi il mio «sì» e l’esperienza fu che la gioia iniziò pian piano a prendere il sopravvento sulla paura. Era un «sì» che dicevo anche se dentro di me non avevo tutto chiaro e soprattutto continuavo a chiedere al Signore: ma come mai proprio in questo momento?! Proprio ora che stanno iniziando tanti bei progetti?! Cominciavo ad accorgermi che Dio non si impone ma si propone, lasciandoci liberi di aderire al suo invito, Lui che non ha esitato a dare suo Figlio per noi! E quando lo mettiamo al primo posto, nella nostra vita tutto cambia.

Il 2 maggio 2015 – insieme a Ròża, giovane polacca – ho detto il mio sì a Dio con i voti di castità, povertà e obbedienza in questa concreta comunità delle Missionarie Secolari Scalabriniane, in cammino con i migranti e i giovani. Ho ricevuto il dono di poter dire questo sì proprio a Solothurn, dove nel 1961 si è costituito il primo nucleo del nostro Istituto Secolare: una storia incominciata con un invito dei Missionari Scalabriniani ad avviare la scuola, un imprevisto che ha bloccato il progetto ed un «sì» detto a Dio con fiducia da parte di una giovane donna, Adelia Firetti. Attualmente siamo presenti in Svizzera (Solothurn, Basilea), Germania (Stoccarda), Brasile (São Paulo), Italia (Milano, Roma, Agrigento) e Messico (Città del Messico, Queretaro). Viviamo la nostra consacrazione a Dio tra migranti e rifugiati delle più differenti provenienze per favorire – dal di dentro di questo complesso fenomeno – la crescita della comunione tra le diversità nella società e nella Chiesa.

(red)

Giulia Civitelli
22 Ottobre 2018 | 18:15
Tempo di lettura: ca. 5 min.
giovani (727), sinodo2018 (100)
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