Il Camerun sull’orlo di un conflitto civile

In risposta alla durissima repressione attuata dal governo di Yaoundè successiva alla proclamazione di indipendenza, lo scorso ottobre, della Repubblica di Ambazonia (da Ambas Bay, la baia alla foce del fiume Mungo che in epoca coloniale marcava il confine naturale tra area inglese e francese, ndr), i leader separatisti anglofoni hanno diffuso una vera e propria chiamata alle armi. La scelta ha avuto una prima, drammatica applicazione l’11 febbraio scorso, anniversario del referendum che condusse all’unificazione del Camerun nel 1961, quando irredentisti e forze governative si sono fronteggiati nella zona di Kembong (regione anglofona sud-occidentale) e sono morti tre effettivi della polizia mentre i feriti, di entrambi i campi, sono stati decine. «È giunta l’ora dell’autodifesa e della protezione della nostra comunità – ha dichiarato Sako Ikome Samuel nel suo primo discorso in qualità di nuovo leader dell’autoproclamata Repubblica di Ambazonia dopo l’arresto in Nigeria dello storico capo Julius Ayuk Tabe e 46 membri del movimento – Non possiamo rimanere inermi di fronte alla distruzione sfrenata delle vite e delle nostre proprietà. Lavoreremo quindi per organizzare i gruppi di autodifesa e di sicurezza contro i soprusi da parte dei francofoni».

 

La nuova strategia dei sepratisti ha decisamente virato verso una deriva militarizzata, al culmine di una fase di durissima repressione da parte del governo centrale e di quella che, secondo Ikome Samuel, sarebbe una convergenza di interessi – Yaoundè, Nigeria e governo francese – a scapito del suo movimento.

 

Per il leader angofono, gli arresti di una cinquantina di attivisti fuggiti in Nigeria e poi estradati in Camerun e la successiva repressione in patria e oltre i confini, sono proprio il risultato dell’alleanza tra queste tre forze.

 

Tedesco fino alla fine della prima guerra mondiale, il Camerun fu spartito tra le potenze vincitrici e diviso in due parti: la zona sud-occidentale, più vicina alla Nigeria (il 20% circa del territorio) fu affidata al Regno Unito, il restante 80%, comprendente la capitale Yaoundé, alla Francia. Quando, dopo l’indipendenza, si passò da una forma federale alla «Repubblica del Camerun», i separatisti della regione occidentale, viste frustrate le istanze di autonomia, diedero l’innesco a una lotta che, sostanzialmente, non si è mai arrestata. Le tensioni tra i 3 milioni di anglofoni e i gli altri 20 hanno vissuto varie fasi di recrudescenza negli ultimi 30 anni ma, dalla scorsa estate, si sono trasformate in scontro violento. Di recente il governo ha rafforzato la propria presenza militare nella regione, ha dispiegato un numero maggiore di soldati e imposto il coprifuoco oltre ad aver emesso forti restrizioni nella libertà di movimento dei cittadini anglofoni.

 

A fare le spese maggiori di questa pesante situazione sono i civili. Negli ultimi mesi, secondo le stime dell’Unhcr e della Caritas Nigeria, sarebbero oltre 43.000 le persone che, terrorizzate dai continui scontri e la repressione del governo, hanno lasciato il Camerun per il Paese confinante, l’80% dei quali è composto da donne e bambini.

 

I vescovi camerunensi hanno fortemente criticato l’uso eccessivo della forza da parte dei militari governativi e, per bocca del Cardinal Tumi, arcivescovo emerito di Douala, denunciato che «la violenza porta solo altra violenza, non certo la pace». Quelli nigeriani, invece, si dicono molto preoccupati dall’incontrollato afflusso di gente disperata verso il loro Paese, un fenomeno che va ad aggiungersi a una situazione di instabilità e povertà di tutta l’area. A rendere tutto ancora più esplosivo, contribuisce il fatto che – sebbene non sia ancora stata stabilita una data – nel 2018 dovrebbero svolgersi le elezioni in Camerun. Il longevo presidente Paul Biya, al potere da 35 anni, per nulla intenzionato a farsi da parte, teme che la questione Ambazonia possa creargli problemi sia sul piano internazionale che su quello interno.

 

Raggiunto al telefono, padre Tatah Mbuy, direttore della comunicazione dell’Arcidiocesi di Bamenda – la capitale della regione anglofona – spiega a Vatican Insider gli ultimi sviluppi della drammatica situazione e la posizione della Chiesa Cattolica nella delicata questione.

 

«La lotta della regione anglofona non ha mai assunto le caratteristiche della rivoluzione violenta. La popolazione ha legittimamente dimostrato la propria frustrazione sostenendo che la propria identità e l’eredità culturale non sono assolutamente rispettati. Il 22 settembre 2017 è stata organizzata la più grande e pacifica manifestazione per i diritti e ci sono state marce in tutte le città delle regioni del sud. I soldati si sono comportati bene in quell’occasione. Il 1 ottobre, invece (manifestazioni a cui ha fatto seguito la proclamazione della Repubblica di Ambazonia, ndr) sono stati uccisi centinaia di civili, altrettanti sono stati torturati, mutilati, incarcerati e il governo non ha nemmeno espresso solidarietà alle vittime e alle loro famiglie. Al contrario, nei giorni successivi sono stati arrestati e torturati altri militanti. Alcune bande giovanili hanno reagito violentemente e ucciso quattro poliziotti, poco dopo, il presidente, di ritorno dal summit dell’Unione africana, ha dichiarato guerra a presunti terroristi. Sostanzialmente ha dato all’esercito carta bianca per arresti sommari, torture, uccisioni. Ci sono stati molti casi di proprietà o case date alle fiamme. I vescovi hanno reagito e accusato il governo di genocidio. Se la comunità internazionale non interviene la situazione raggiungerà a breve un punto di non ritorno. Almeno una persona al giorno viene uccisa e credo si possa dire che stiamo scivolando verso una guerra civile».

 

Qual è il ruolo della Chiesa in questa situazione di tensione?

«I vescovi sono impegnati nella creazione di uno spazio di dialogo inclusivo e sincero con tutte le parti da molto tempo. Chiedono che siano rilasciati tutti i detenuti e cessino le torture, gli arresti sommari e gli incendi dolosi. Nel frattempo chiamiamo tutti alla preghiera e all’impegno per la pace. C’è poi un importante ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nel supporto verso i profughi sfollati in Nigeria. I vescovi di Mamfe e Kumba, le città da cui la gente sta fuggendo in massa, per esempio, lavorano notte e giorno per portare aiuti e visitano regolarmente i profughi».

Luca Attanasio – VaticanInsider

28 Febbraio 2018 | 07:30
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