Cristina Vonzun

Grandezza e miseria dell’uomo, fatto di polvere e di apertura all’infinito

Un Papa gesuita scrive una lettera apostolica su Blaise Pascal (1623-1662), filosofo, fisico e matematico francese, ateo convertito da giovane. «Sublimitas et miseria hominis» si intitola il testo, cioè «grandezza e miseria dell’uomo». Uno scritto – ha detto qualcuno – per riabilitare il pensatore francese a 400 anni dalla nascita, dato che Pascal, vicino per un certo periodo al giansenismo, nelle Lettere provinciali prese di mira i gesuiti o, meglio, «certi» gesuiti. E Francesco ricostruisce la vicenda. Di là dalle polemiche seicentesche, di Pascal restano il genio precoce, che a dodici anni aveva dimostrato da solo le proposizioni di Euclide, a diciotto progettò e costruì una macchina aritmetica antenata delle calcolatrici e a ventuno intratteneva una corrispondenza con Pierre de Fermat sulla teoria della probabilità. Questi alcuni aspetti di Pascal scienziato. Poi ci sono generazioni di cattolici, compresi i futuri pontefici Paolo VI, Benedetto XVI e Francesco che hanno testimoniato di aver letto e tratto ispirazione da un testo fondamentale che Blaise Pascal non concluse a causa della malattia e della morte, i «Pensieri» progetto di una sorta di apologia del cristianesimo incompiuta. Pascal un uomo «innamorato di Cristo», scrive il Papa. Ma come e di quale Cristo? Non un Cristo da nicchia ma una fede che è luce all’intelletto perché lo illumina nel capire meglio l’uomo e il mondo. Tanti i passaggi della bellissima lettera sono un inno a questa apertura che la fede offre alla realtà. Il Papa trova in Pascal anche uno dei postulati del suo pensiero: «La realtà è superiore all’idea», di cui il Pontefice tratta anche nell’Evangelii gaudium quando affronta il tema del bene comune e della pace sociale (EG 217-237). Questa insistenza sull’efficacia della realtà, per non perdersi nei possibili travisamenti dell’idea, è estremamente attuale e fortemente presente nel dibattito filosofico contemporaneo e nel dramma del mondo che viviamo oggi. Pascal insegna che «niente è più pericoloso di un pensiero disincarnato», un’idea che si crede superiore alla realtà. E il Papa commenta: «Le ideologie mortifere di cui continuiamo a soffrire in ambito economico, sociale, antropologico e morale tengono quanti le seguono dentro bolle di credenza dove l’idea si è sostituita alla realtà». Basta vedere oggi il pericolo di credere un’idea o un’ideologia superiore alla realtà, dalla superiorità della razza al credersi eredi di un nuovo impero con la conseguenza di guerra e morti. Profonde sono pure le analisi esistenziali che Pascal compie: la condizione umana tra grandezza e riconoscimento di una miseria, cioè quella finitudine, quel limite che tutti sperimentiamo, dal quale si tenta di fuggire nelle distrazioni ad oltranza. L’uomo è un cercatore di felicità: per Pascal il punto di arrivo di quella ricerca è Dio, anche se più immediato è rincorrere quella felicità in una distrazione per la distrazione, nel divertissement. Una domanda allora: anche la guerra dei potenti non potrebbe essere letta come un tentativo di distrazione dalla loro stessa finitudine non accettata? Infine, la fede di uno scienziato come Pascal cos’è? Il pensiero di Pascal su questo punto è stato esaltato da un Papa come Ratzinger che ha sempre sostenuto la ragionevolezza del credere: per Pascal, infatti, la fede non è cieca ma ha le sue ragioni che lui descrive come intelligenza intuitiva: le «ragioni del cuore» che non sono un sentimento vago ma quella fondamentale capacità dell’intelletto di visione di sintesi, di collegamento tra gli elementi distinti, capacità di intuire i principi primi, e «Dio che ci ha fatti per amore e l’amore incarnato che è Gesù Cristo». Conviene leggere la lettera del Papa su Pascal perché è un tuffo nella grandezza e miseria dell’uomo, nella nostra polvere e nel nostro desiderio costitutivo ma anche ragionevole di infinito. Meglio: di Dio e di amore.

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24 Giugno 2023 | 12:44
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