Laura Quadri

Fede e umanità in Anton Cechov

Un uomo e uno scrittore della quotidianità, capace di imprimere una svolta nella grande letteratura russa, e forse anche europea, grazie a un’intuizione: la fede è dei «piccoli», degli umili, dei «nascosti».  Così Adalberto Mainardi, monaco di Bose, studioso di spiritualità russa e ospite dell’Associazione «Biblioteca Salita dei Frati», ha presentato lo scorso martedì 26 aprile la scrittura di uno dei più grandi narratori russi dell’Ottocento: Anton Čechov.

«Stiamo parlando di uno scrittore che non si definisce credente. Tuttavia, emerge dai suoi testi una presenza costante della letteratura religiosa, che gli deriva probabilmente dalla frequentazione della liturgia ortodossa negli anni giovanili. Per lui la fede non è tanto un’adesione esplicita, ideologica a un credo tradizionale, ma qualcosa che coinvolge la vita. Tale legame fondamentale con la vita verrà ribadito dai suoi personaggi. Maša, protagonista del dramma teatrale Le tre sorelle, lo dichiarerà apertamente:

A me pare che l’uomo debba avere una fede o cercarla, altrimenti la sua vita è vuota».

A questo concetto di fede, è fortemente legato quello del «risveglio» dell’uomo. «Čechov cresce in una famiglia di ex servi: il nonno, Egor, aveva comprato la sua libertà. In lui, come nei suoi personaggi, scorreva dunque il sangue di un uomo libero, che scopre di essere veramente umano. Lo stesso Cechov si fa da sé: i genitori volevano che si riscattasse; così prende la scelta di diventare medico. Al contempo, inizia a collaborare con vari giornali. Scrive molto, spesso. Gli chiedevano racconti brevi, concisi, ogni settimana. Inizia ad emergere in questi anni la sua mente analitica, scientifica. Non analizza, però, come un medico, una patologia fisiologica, ma quelle che ai suoi occhi sono le «patologie» della vita: vuole guardare alla realtà così com’è, mettendone in luce tutti gli aspetti. La realtà delle relazioni umane deve emergere al naturale. Per questo, molto spesso i suoi personaggi hanno dentro di sé qualcosa che li rende schiavi. Sono, per usare un’espressione tipica di Čechov, «uomini nell’astuccio», come se avessero paura della vita, come se si nascondessero davanti alla realtà. I tre quinti dell’opera di Cechov potrebbero così essere definiti un’enciclopedia, senza veli, della vita russa della fine del 19esimo secolo».

La Dama con il cagnolino, spiega Mainardi, è un racconto emblematico della volontà di Čechov, anzitutto, di «osservare», senza pregiudizi: «È la storia di due persone che si amano clandestinamente, la cui vicenda va intricandosi sempre più. Alla fine del racconto non viene però data nessuna soluzione. Gli stessi protagonisti constatano che la loro intricata vicenda è lungi dal risolversi. L’intrigo non viene sciolto. Un altro scrittore avrebbe certamente optato per altre soluzioni. Per Čechov, invece, i problemi non hanno una genealogia che lo scrittore deve spiegare o giustificare davanti al lettore, non c’è una risoluzione all’incompiutezza dei personaggi o perlomeno questa non deve venire da chi scrive. Del resto, è risaputo il consiglio spesso dispensato da Čechov: quando scrivete un racconto, dopo averlo finito, tagliate l’inizio e la fine perché è lì che gli scrittori mettono tutte le loro menzogne, cioè nel voler spiegare, interpretare la realtà. Non c’è, invece, giustificazione possibile dei personaggi; la realtà stessa, nella sua complessità, è senza giustificazione».

L’interesse per la Bibbia – gli «echi» biblici – si innestano in questo percorso e vivificano dall’interno il racconto. C’è la fede mal riposta del peccatore nelle cose materiali, ad esempio, quella che porta verso la meschinità. Così accade a Kovrin, protagonista del Monaco nero, scritto nel 1894: il religioso che gli appare in visione non è altro che il suo ego ipertrofico, pieno di sé, immagine di una perfezione da fariseo, formale, esteriore, narcisistica. Ma c’è anche la pièce del 1898, intitolata Sull’amore, in cui lo scrittore fa ammettere ai suoi personaggi grandi verità:

«Finora, sull’amore è stata detta una sola verità indiscutibile, cioè che questo mistero è grande».

Un chiaro riferimento, secondo Mainardi, a San Paolo: «L’eco, in un discorso del tutto occasionale tra i protagonisti del racconto, segnala che c’è un sottotesto, che c’è una profondità, un enigma, una dimensione forse nascosta agli stessi personaggi. Rivive in pienezza la Lettera agli Efesini: Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa (Ef 5, 31-32)».

Proprio a questa filosofia del quotidiano Cechov affida il suo messaggio sulla fede: «Nei suoi racconti ci sono degli uomini di fede, certo, ma non sono i grandi uomini con grandi mezzi; al contrario, sono i «piccoli» che sanno in modo inaspettato, a un certo punto, ritrovare l’umanità che è dentro di loro». Lo «studente» dell’omonimo racconto del 1884 ne è un esempio lampante. In una notte gelida, che ricorda la notte in cui Pietro tradì Cristo, attorno a un fuoco, rievoca proprio la pagina evangelica. Ne nasce, negli astanti, un moto di commozione inaspettato: «Le loro lacrime alludono alla veridicità del testo evangelico. Cechov è così: non ha l’atteggiamento di chi fa una predica; entra dentro una storia reale, lascia che i personaggi si identifichino con il Vangelo; nascono, in questo modo, una storia e una fede autentica. Soprattutto, è convinto che il racconto evangelico abbia la stessa forza di un racconto reale. Rivive in questa certezza lo stupore di Cechov adolescente  per la liturgia e la sua ricchezza. Come lui, sono personaggi del tutto normali che carpiscono il senso profondo delle cose».

Accade così, indica Mainardi, anche nel dramma più famoso di Cechov, Zio Vania. Il protagonista, Vania, è un uomo apparentemente dai grandi ideali, ma che in realtà si rivela un meschino egoista. In questo caso, invece di chiudere la pièce nella più devastante insensatezza, nella precipitazione, Cechov affida il messaggio più grande alla giovane nipote, con parole rimaste celebri, di una commozione rara. Mainardi le parafrasa con commozione: «Bisogna vivere e noi vivremo. Dio avrà compassione di noi e vivremo una vita bellissima, sentiremo gli angeli, vedremo il cielo di diamante; come tutto il male terrestre, le nostre sofferenze si annegheranno nella Misericordia, che avvolgerà di sé tutta la nostra vita. Essa sarà tranquilla, dolce, silenziosa, tenera come una carezza».

«Per Dostoevskij – ha concluso Mainardi – ciò che conta è l’idea, da qui i suoi romanzi ideologici, personaggi che sono subito classificati come demoni o angeli. Così anche Tolstoj, per il quale, se c’è una verità, deve essere detta con forza. Per Anton Čechov no: non ci sono verità assolute, conta solo l’attaccamento dell’uomo a questa verità. Ogni piccola cosa che viene riconosciuta nella sua forza ha una dimensione eterna».

Laura Quadri

La Biblioteca Salita dei Frati, annessa all'ex convento cappuccino.
28 Aprile 2022 | 00:18
Tempo di lettura: ca. 4 min.
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