Le parole del Papa dall’ospedale Gemelli di Roma

L’Angelus di domenica scorsa proclamato dal balcone dell’ultimo piano dell’ospedale Gemelli di Roma dal quiescente pontefice, è stata una delle catechesi sulla pastorale sanitaria più incisiva degli ultimi decenni. Senza nulla togliere al visionario e profetico Pio XII che settant’anni fa già vedeva nelle cure palliative non la medicina dell’abbandono ma dell’amore servizievole fino all’ultimo respiro, per poi passare al magistero di san Paolo VI seppure non accessibile a tutte le categorie di fedeli,  fino all’indimenticabile san Giovanni Paolo II con i suoi documenti agli operatori sanitari e alla vita stessa di Benedetto XVI dove l’insegnamento sulla pastorale al malato e all’anziano era ed è tuttora sperimentata nella sua stessa persona di  novantenne, papa Francesco ha saputo – come lui è capace – arrivare dritto al cuore di tutti, dei malati e di chi li cura. Poco dopo il suo «buongiorno» ha detto di essere contento: un papa che va in ospedale non è di per sé uno scoop ma un papa che parla a Roma e al mondo mentre è ancora convalescente sì, questa è una notizia, una buona notizia! Il papa che «viene dalla fine del mondo» sa bene cosa significhi offrire cure sanitarie e gratuite per tutti, perché «i poveri (e i malati) li avrete sempre con voi» (Mc 14,7).
Eppure, questo sogno tende sempre più a diventare un abbaglio per una medicina che rischia di passare da una vocazione al servizio, ad un mero guadagno sulla pelle degli altri, dei malati e delle loro famiglie. Ospedali che devono fare utili, capitali, bonus per i dirigenti, meno giorni di degenza e più cure ambulatoriali rischiano di esporre il malato ad una fragilità eccessiva, mentre le famiglie che sono i primi curanti, non retribuiti ma fondamentali se non alla guarigione, almeno alla cura, si sentono sempre più sole.
L’olio dell’ascolto passa inevitabilmente dal colloquio medico-paziente dove dovrebbe risuonare, almeno per i medici credenti, la domanda che Gesù pone al cieco di Gerico: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Lc 18,41). Anche i sacerdoti impegnati nella pastorale sanitaria ed assistenziale non pensino di improvvisarsi tali: è infatti indispensabile formarsi adeguatamente perché è grandissimo il privilegio di accompagnare le persone in momenti altamente significativi e carichi di spiritualità. Non solo i degenti ma pure i sanitari hanno bisogno di quell’olio dell’ascolto e della tenerezza che li faccia sentire importanti, anzi, indispensabili.  Ma ancor di più, è tutta la  nostra società che necessita di riscoprire il valore autentico dell’amore che si dona  fino all’ultimo. Questo, ben inteso, senza anticipare il momento della morte e senza protrarre le cure inutilmente portando il malato e la sua famiglia ad una disperata e prolungata agonia. La vita è un dono, sempre, anche se segnata dalla sofferenza, dall’infermità e dall’anzianità.
Sul portale del seicentesco ospedale di Matera ho letto in questi giorni questa iscrizione: «Chi vuol fare del Ciel un degno acquisto, entri qui dentro a visitar gli infermi con man porgente per amor di Cristo». Un monito da vivere e che spiega benissimo le parole del Papa.
Il malato, suo malgrado, offre ai sani la possibilità di sperimentare la forza dell’amore quando si passa dalle buone intenzioni alla pratica concreta. Nell’amare un malato, servendolo, si ama Cristo. Questa pastorale della delicatezza da parte di chi i malati li accompagna, clero e laici, fa brillare il volto della Chiesa in un mondo opacizzato dal guadagno dove è urgente auspicare che la dignità umana non sia sfruttata per il profitto di pochi, ma venga difesa per l’umanità di tutti.

di fra Michele Ravetta.

16 Luglio 2021 | 13:56
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