La Manor di Lugano, luogo del tragico evento.
Ticino e Grigionitaliano

Roberto Simona sull'aggressione a Lugano: «Condividere la sofferenza per ritrovare una pace vera»

Il folle gesto della giovane donna avvenuto al quinto piano della Manor di Lugano, ci ha gettati nel dolore e lasciati in uno stato di shock. Ancora una volta sono state coinvolte persone innocenti. Che non centravano nulla. I loro passi, per puro caso, si sono incrociati con quelli di persone «sbagliate», in momenti sbagliati. Ci sono delle vittime, in un luogo che ci è caro. In cui abitiamo o siamo cresciuti.

La tragedia avvenuta mi ricorda altre vittime che ho incontrato, conosciuto, con cui talvolta, ho stretto dei legami di amicizia, durante missioni che mi hanno portato in Paesi come l’Iraq, la Siria, il Tajikistan, l’Afghanistan. Vittime che incontravo sul terreno o nelle prigioni. Vittime che oggi sono state dimenticate, vivono trascurate, o che vengono utilizzate per giustificare decisioni e azioni che, dopo decenni, ancora non hanno portato la pace e la libertà alla popolazione dei loro Paesi. Vittime di atti di violenza assurdi, non dissimili a quanto è di recente accaduto in Austria e Francia e forse, ma il condizionale è d’obbligo, anche a Lugano.
Atti che non penseremmo mai di vedere in Svizzera. Anche se il rischio c’era.

Provo una forte e vera vicinanza con le due donne rimaste gravemente ferite, per le loro famiglie, i loro amici e le loro amiche. Non possiamo, come comunità, che essere loro accanto. Sostenerli in questi giorni, nelle prossime settimane e nei prossimi anni. Ma i miei pensieri vanno anche ai genitori di colei che ha commesso questo gesto di follia. Anche verso la donna che ha ferito e voluto uccidere. Anche questa famiglia ha bisogno del nostro sostegno. Di un ascolto e di un accompagnamento profondamente umano. Lo so: quello che scrivo rischia di suscitare delle reazioni negative, forse ci sembra addirittura troppo difficile da realizzare. Ma proviamo – per un istante- a metterci nei panni delle famiglie coinvolte, che dalla mattina alla sera hanno visto le loro vite cambiate, a immaginare quello che sarà la loro vita dopo questi fatti. Noi, che non siamo vittime dirette di quanto accaduto, che
abbiamo la fortuna di non aver dovuto subire questi o simili atti di brutalità che avvengono quotidianamente nel mondo – e anche nella nostra società occidentale- non dovremmo sentirci chiamati -in un certo modo- a rispondere con scelte profondamente umane a situazioni in cui la violenza prende il sopravvento? Non per imporre il nostro credo, ma per vivere ciò in cui crediamo, per trasformare i valori, in comportamenti concreti e non limitarci a discorsi che rischiano di essere ideologici?
D’altronde è proprio questa la forza incredibile della riconciliazione che ho visto in atto in altre aree del mondo che ho visitato, dove nuclei famigliari e comunità sono stati capaci di vivere queste crisi superandole con un bene più grande del male subito, con un dialogo più forte dei tentativi di divisione. Infondo siamo tutti responsabili di condividere la sofferenza che altri subiscono e di vegliare su quella che altri ancora infliggono. Avverto forte questa responsabilità. Riconoscere e rilevare la sofferenza di ogni vittima che ha patito o commesso un atto di violenza e di ingiustizia è, secondo me, fondamentale nella prospettiva di un ritorno ad una pace vera, di una società che ridiventi per tutti, un’oasi di vita e di speranza.

Ma come difendere il bene con il bene, senza cedere a forme di violenza fisica o verbale? È possibile? Padre Jean-Pierre, uno dei due religiosi sopravvissuti alla strage dei sette monaci uccisi a Tibhirine in Algeria nel 1996, disse in una delle sue ultime invertiste pubblicata sulla rivista «Le Figaro»: «Dobbiamo credere che l’amore sia sempre più forte. Che l’amore di Dio avrà l’ultima parola.» È quanto insegna e ha testimoniato Gesù quando dice «amate come io vi ho amato». È un cammino difficile e faticoso. Ma è l’unica scelta per impedire che il male faccia nascere in noi pensieri di violenza, ritorsione, odio. L’unica via per fare che, alla fine, a vincere sia il bene.

Roberto Simona*

*Dottore in scienze politiche, specializzato nell’analisi e nella gestione dei progetti in relazione ai diritti umani. Ha maturato una solida esperienza nel campo interreligioso visitando e lavorando all’interno delle dinamiche interculturali dei paesi musulmani e dell’ex-URSS.

La Manor di Lugano, luogo del tragico evento.
26 Novembre 2020 | 14:40
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