Commento

Ingrid Betancourt: «Avrei ucciso i miei rapitori, ma non ho voluto convertirmi all’odio»

«Non è stato facile, proprio no». C’era scritto questo sul volto di Ingrid Betancourt quando si è spento il segnale On air e il break pubblicitario ha posto fine alla sua intervista d’apertura dello speciale realizzato da Tv2000 domenica pomeriggio, nelle ore conclusive del viaggio di Papa Francesco in Colombia. Quello che potremmo chiamare «il diario di Ingrid» ha aperto la lunga diretta de «Il diario di Papa Francesco». E la sua sofferta testimonianza è stata tra i migliori corredi possibili ad un viaggio nella matassa che segna questo nostro millennio, quell’intreccio tra ideologie che hanno tradito se stesse, poteri criminali, paradisi fiscali e disumanizzazione contro la quale c’è solo la sfida della pace, in Colombia come in tanti altri Paesi.

 

Quell’idea, «facciamo il primo passo», la Betancourt l’ha spiegata parlando della sua avventura di ostaggio nelle mani della Farc, per sei anni. «Non è stato facile», lo si leggeva sul suo volto nonostante dall’8 luglio del 2008, quando venne liberata, sia passato quasi un decennio. Ma ricordare è stato il suo primo passo, quello che lei doveva fare e ha fatto, parlando di sé, di quando venne isolata, umiliata, nella foresta colombiana, da chi l’aveva rapita, probabilmente per impedirle di rifare da presidente del suo Paese quel che aveva fatto suo padre: avviare la pace. Così le sue parole più commoventi appaiono quelle con cui ha concluso la sua lunga apparizione televisiva: «Sogno una Colombia con Dio: perché quella senza Dio è la Colombia che abbiamo conosciuto sin qui».

 

Più si legge sulla Colombia più si scopre che la data d’inizio dell’inferno va arretrata rispetto a quanto comunemente si dice: il massacro del 27 maggio 1964 durante l’operazione «Marquetalia», una massiccia operazione militare dello Stato colombiano per reprimere le esperienze definite «di auto-organizzazione agraria contadina», che nelle ricostruzioni molto ufficiali e molto cartacee segna la nascita delle Farc è in realtà preceduto dal delitto del popolarissimo candidato indipendente del partito liberale Jorge Gaitàn nel ›48, che segnò l’inizio della drammatica epoca chiamata la Violencia; ma Gabriel Garcia Marquez ci dice che «il mondo finì» ancor prima, nel ’28, con una strage di braccianti che lavoravano nelle piantagioni di banani. E dove si è arrivati?

 

Ingrid Betancourt ha raccontato che, dopo un suo tentativo di fuga, i carcerieri la tenevano incatenata per il collo, come un animale, lì nella foresta. L’odio contro di lei in quei giorni era alla sua massima espressione. Anche quel giorno, sotto il diluvio che si protraeva da ore, a differenza degli altri prigionieri e dei guerriglieri che erano al riparo in capanne, lei venne tenuta lì, incatenata. «Nella foresta non ci sono bagni, ma quando chiesi al mio guardiano se poteva sciogliermi, per lasciarmi andare dietro un albero, come se andassi al bagno, lui mi rispose: «Quello che devi fare puoi farlo qui, davanti a me. Cagna»».

 

È stato un momento intenso e davvero drammatico, come drammatico è stato il successivo silenzio, durante il quale Ingrid Betancourt ha cercato le parole per proseguire: «Io ho sofferto per tanti anni, ma in quel momento, la risposta di quell’uomo, una risposta così inutile, così piena di odio, di malvagità, beh in quel momento ho sentito che volevo ucciderlo. Sì, mi sono detta che lo odiavo e volevo ucciderlo. È stata una decisione molto fredda. E questa sensazione, questo pensiero, questo desiderio è diventato un’ossessione per me, che mi ha riempita, quasi affogato. È durata per giorni, e mi chiedevo come potessi ucciderlo. Era così. Finché non ho capito che no, non era vero. Un giorno mi sono svegliata e mi sono detta che io non voglio ucciderlo. Questo è proprio quello che io non voglio. Io non voglio aver vissuto tutto quello che ho vissuto per finire col trasformarmi in un essere che odia, che desidera la morte dell’altro, assetata della morte dell’altro: non mi voglio convertire in quello che sono loro. E questo pensiero mi ha liberato. È stato un pensiero liberatorio perché ho capito che anche con le catene dell’umiliazione, dell’abuso, del dolore, avevo ancora la più importante delle libertà, quella di essere ciò che volevo essere».

 

«Io -ha aggiunto Betancourt – credo che oggi in Colombia siamo in un momento simile. E la visita di Papa Francesco ci sta ricordando le altre opzioni che abbiamo: possiamo vivere aggrappati alle nostre vendette, alle nostre leggi, ai nostri valori della guerra: ovviamente quando c’è la guerra uccidere è un valore. Chi uccide il nemico è un eroe. Ma è un errore. È un errore, perché mantiene l’essere umano incatenato ai suoi istinti e non alla sua umanità. Papa Francesco ci sta portando l’immagine di un’altra cosa: che possiamo essere persone libere, e quindi la riconciliazione non deve dipendere dall’altro, che ci deve chiedere perdono, ma da noi, dal fatto che noi stessi cerchiamo di incontrarci e liberarci dal danno che ci è stato fatto. In questo senso tutti noi colombiani e non sono quelli della guerriglia siamo chiamati a cambiare atteggiamento, noi siamo chiamati a incontrarci nella luce dell’umanità».

 

Ingrid Betancourt ha detto molte altre cose importanti, sulla paura, «sull’uragano Francesco», che come gli uragani naturali che in queste ore entrano e scuotono le vite di milioni di persone in quella parte del mondo è entrato scuotendo le vite e i cuori di milioni di colombiani. Ma il vero primo passo che poteva fare lo ha fatto ricordando. Avendo il coraggio di rivivere quei momenti, e la sua scelta di non convertirsi in altro da sé. Forse dopo aver riportato indietro l’orologio della memoria fino all’inizio del secolo scorso, per capire meglio la storia della Colombia, lo sforzo indicato da Ingrid Betancourt è quello indispensabile per riuscire davvero a voltare pagina.

Riccardo Cristiano – VaticanInsider

20 Settembre 2017 | 07:00
Tempo di lettura: ca. 3 min.
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