Ticino e Grigionitaliano

Verscio: la testimonianza di mons. Antonio Bonzani, missionario in Uruguay

di Laura Quadri

78 anni, sacerdote da 53 e professore da 40 in Uruguay, mons. Antonio Bonzani è partito negli anni Settanta dalla Valle Vigezzo, rispondendo all’appello del proprio vescovo, per approdare nel Paese latinoamericano, vivendo i cambiamenti della Chiesa locale e toccando con mano le povertà concrete della popolazione, «oggi minori, ma comunque ancora tangibili». Da allora due sono stati i suoi sostegni più importanti: quello dei compaesani, a Villette, nella vicina Italia, e quello dei parrocchiani delle Terre di Pedemonte, dove oggi risiede la sorella Emma, che lo hanno nel tempo sostenuto con le più varie iniziative, dai mercatini alle donazioni generose, oltre all’amicizia stretta con diversi parroci ticinesi.

«La Diocesi di Novara ha sempre avuto una vocazione «missionaria»», racconta, ospite in questi giorni proprio a Verscio. «Nella seconda metà del secolo scorso ha avviato progetti in Burundi, nelle Filippine, in Giappone e poi anche in America latina. Ai sacerdoti incardinati i vescovi locali chiedevano conseguentemente una formazione missionaria : lo studio delle lingue e della cultura di altri Paesi, spesso in previsione di una partenza vera e propria, come nel mio caso. La Chiesa «in uscita» di cui si parla oggi, insomma, vissuta ante litteram».

Mons. Antonio, per questa formazione, si sposta per tre anni, in vista dell’ordinazione, a Verona; quindi nel ’72 viene destinato all’Uruguay. Dapprima direttore didattico e parroco in varie comunità del Paese, approda quindi all’unica facoltà teologica ancora oggi esistente in Uruguay, nella capitale, Montevideo, per insegnarvi dogmatica. «Ho visto passare dalla mia aula buona parte del clero diocesano del Paese, tra cui l’attuale arcivescovo e cardinale, ospite anche lui negli scorsi giorni in Ticino, Daniel Sturla (vedi Catholica del 17 giugno), mio alunno, e alcuni dei quali sostenuti anche grazie a borse di studio direttamente finanziate dal Ticino».

Decine di sacerdoti in un Paese in cui vivere la propria fede rimane, ancora oggi, una vera e propria sfida e di cui don Antonio, poi scelto per far parte di diversi organismi diocesani e in diverse commissioni della Conferenza episcopale uruguayana, è ben cosciente: «L’Uruguay è un Paese che vive il laicismo come forma di opposizione aperta a qualsiasi religione. Siamo da poco usciti da 15 anni di governo di estrema sinistra, marxista, che non ha certo facilitato il lavoro della Chiesa locale, spesso sottoponendo qualsiasi tipo di progetto – scuole o ospedali – a una legislazione rigida e intransigente. Anche se il nuovo governo, da poco, è di centro- destra, il Paese è di fatto nelle mani dei sindacati di sinistra; una situazione ben capace di paralizzare l’intera infrastruttura statale». Da qui una riflessione, maturata nel tempo, su ciò che deve essere davvero la missione oggi: «Non credo, come il Papa, in una Chiesa «ONG», che offra solo iniziative sociali. Credo che il focus debba essere messo altrove: Gesù sanava e annunciava. Essere missionari oggi, in Uruguay come altrove, significa continuare a portare questo annuncio nelle situazioni concrete. La fede si manifesta sì nella carità, nel gesto che dà credibilità alla Parola, ma a sua volta la Parola illumina il gesto».

E proprio a proposito di Francesco, «è il Papa, certo, ma per noi sarà sempre il parroco di Buenos Aires, cresciuto in mezzo alla gente del Sudamerica – che è anche la mia ormai da tempo – e ai suoi problemi;: ciò che gli ha permesso di diventare la guida che è oggi». Infine, un pensiero riconoscente ai benefattori ticinesi: «Li penso sempre nella S. Messa quotidiana, pregando per le loro intenzioni, che i sacerdoti dal Ticino mi comunicano. È una cosa a cui tengo molto, un modo per essere fratelli e sorelle al di là dell’Oceano».

Leggi anche: Il cardinale Sturla: «La nostra in Uruguay è una Chiesa povera e libera, piccola e bella» (catt.ch)

15 Luglio 2023 | 06:41
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