Ticino e Grigionitaliano

«Un ponte tra i Balcani e il Ticino». Un libro e un nuovo progetto della Fondazione Spitzer

La memoria può essere un lusso. Un lusso perché le ferite aperte, gravate nel cuore, potrebbero essere ancora troppe, indefinibilmente profonde, vivide.  Così, provare a muovere i primi lievi passi verso un fare memoria soprattutto del viaggio intrapreso per ritrovare la pace, può e deve essere, più che di chi fuggì, compito di chi accolse. Con quest’ottica è stato voluto dalla Fondazione Spitzer – e poi affidato allo storico nonché membro della Fondazione Pietro Montorfani – il denso volume «Un ponte tra i Balcani e il Ticino. Storie di fuga dalla guerra, emigrazione e accoglienza», presentato ieri sera nella Sala del Consiglio comunale di Locarno, alla presenza delle autorità politiche della Città, nonché – in una sala gremita – di diverse decine di partecipanti. Un «timido» approccio per tentare di ricostruire la storia della guerra nei Balcani attraverso la voce di chi la visse e, poi, costretto dalle violenze subite, intraprese l’esodo verso la Svizzera, terra nella quale provare a ricostruire soprattutto per i propri figli un orizzonte liberato dall’odio.

Un pensiero a tutte le vittime

E l’occasione per il Sindaco Scherrer per esprimere anzitutto la sua vicinanza a chi, attualmente, soffre per medesimi motivi di conflitto. «Il mio pensiero questa sera va a quanti hanno sofferto per lasciare qualcosa di diverso alle nuove generazioni», ha sottolineato. Locarno, a questo proposito, «guarda con un sentimento di commozione a tutte le vittime della guerra, pronta sempre ad assumersi il suo dovere di accoglienza e integrazione, come già è accaduto positivamente in passato. Proprio Carla Del Ponte, ex Procuratrice Capo del Tribunale penale internazionale per l’Ex-Jugoslavia, ebbe a dire che la motivazione più grande del suo lavoro sono state «le vittime stesse dei crimini, che rappresentano per me un’immensa sofferenza». Con queste profonde parole credo possiamo guardare al lavoro della Fondazione Spitzer. La lezione della memoria? Un futuro di pace, che passa dal dialogo quale strumento per affermare valori e principi nella più vasta comunità dei popoli».

Il volume è parte di un progetto che la Fondazione Spitzer – in collaborazione con le città di Locarno, Bellinzona, Lugano e il Servizio per l’integrazione degli stranieri del Dipartimento delle istituzioni – intende promuovere sull’arco di più anni, dando anzitutto la parola, in più occasioni, ai testimoni diretti di quegli anni. A questo proposito, alle 20.30 al Palacinema, è poi stata proposta (vedi il video sotto) la proiezione del film La terra interiore (The Land Within, 2022) di Fisnik Maxville, una produzione svizzera e kosovara incentrata sui temi della memoria e del superamento dei conflitti, anticipata da una tavola rotonda con Jovan Marjanovic, Direttore del Festival del film di Sarajevo, Niccolò Castelli, Direttore artistico delle Giornate del cinema di Soletta, Nicola Pini, Presidente della Ticino Film Commission e Fulvio Pezzati, membro del Consiglio della Fondazione Spitzer e vicepresidente Caritas Ticino.

I Patti di Locarno

Partire da Locarno per tutto questo non è stata una scelta casuale. «Sento, questa sera, il peso della storia che questa città ha assunto», ha sottolineato Moreno Bernasconi, Presidente della Fondazione Spitzer. «Penso ai Patti di Locarno, 100 anni fa, una vera speranza, firmati per tornare ad un regime di pace, in un’epoca come quella di inizio Novecento, tremenda per le sue barbarie. Un tentativo straordinario, dopo la creazione della Società delle Nazioni, che Giuseppe Motta aveva voluto a ogni costo contribuire a creare convincendo il popolo svizzero, conservatore, chiuso in un «ricordo medievale», ad aderirvi. È uno spirito che dovremmo recuperare, tornare a fare nostro, senza il quale difficilmente potremo dare contributo al dramma che sta accadendo oggi alle frontiere d’Europa. Tante volte ci siamo ripetuti «mai più», ma non avevamo capito che diversi nodi non erano stati affrontati; li avevamo semplicemente nascosti, forse per il benessere raggiunto, convinti che mai saremmo potuti retrocedere al passato. Ma la verità è che occorre fare memoria della barbarie, altrimenti non arrivi a una coscienza e ad un’assunzione di responsabilità».

L’esempio di Federica Spitzer

«La figura di Federica Spitzer fu a questo proposito di grande esempio: ebrea scampata all’olocausto, decise di farsi deportare per salvare i propri genitori. Coltivare nella vita tale senso profondo delle cose può aiutare a resistere e superare anche la più terribile delle barbarie e trasformare, come affermò lei stessa, «una tragedia in un trionfo dell’umanità».

Inoltre, «Federica Spitzer era una persona comune. Non sono tanto gli eserciti a cambiare la storia, ma le società civili, se si creano le condizioni giuste: condizioni per le quali non solo viene combattuto il male ma anche promosso il bene. Lugano ha fatto questo. Quante persone semplici vi sono state accolte e vi hanno deposto le ragioni della loro umanità, cambiando nel piccolo la storia? Sulla base di questa idea è nata tempo fa l’iniziativa del Giardino dei Giusti. Ma ci siamo detti, come Fondazione, che non bastava. Non bastava ricordare le due guerre, perché solo 30 anni fa – diremmo «ieri» – un’altra guerra insanguinava il continente. La fine di un impero può condurre a guerre tremende; ma ignorarne le conseguenze, sotterrarle per non vederle, è il vero problema. Così ci è parsa una buona cosa prendere sul serio le sofferenze che i popoli balcanici hanno dovuto vivere, andando fino in fondo e valorizzando quel contributo di bontà, di umanità, accoglienza che ha spinto un Cantone intero, un Paese come la Svizzera a essere molto generoso. L’integrazione è un valore, per quanto possa costare. Ringraziamo le persone accolte per averci portato qui quello che sono e con loro costruito questo Paese».

Il ricordo di Flavio Cotti

Dunque il lavoro della Fondazione Spitzer, nei prossimi due anni, sarà quello «di andare approfondire questa memoria di male, ma anche di bene, forse concludendo di nuovo il percorso proprio a Locarno, luogo in cui un altro illustre cittadino ha dato un contributo essenziale: Flavio Cotti, che da Presidente allora dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) invitò a metà degli anni Novanta, alla Sopracenerina, tutti i grandi del mondo, analogamente a quanto avvenne per i Patti di Locarno,  per un incontro in vista della ricostruzione dei Paesi colpiti dalla guerra dei Balcani, in particolare il Kosovo. Un evento poi riconosciuto per la sua importanza dall’intera comunità internazionale e fondamentale per la nascita del processo democratico. Mi piace pensare che è nella memoria di queste figure che si svolgerà il percorso della nostra Fondazione. Per «riprendere con più sapienza – come disse Motta nel 1925 – e più fondata speranza lo sforzo di redimersi dal più terribile dei mali: la guerra».

Il volume

«Tale è il compito che ci siamo dati: accompagnare questo lavoro sulla memoria», ha quindi esordito Pietro Montorfani presentando lo studio. «Dal nuovo volume pubblicato recentemente dalla Casa editrice Dadò, la Storia svizzera delle migrazioni, lo si capisce bene: il movimento è la chiave distintiva della popolazione svizzera, non la stabilità; inoltre, gli Svizzeri hanno sempre accolto. A questo proposito sapevamo, a linee generali, quanto avesse contato anche per il Ticino la questione balcanica, ma mancava uno studio che tirasse le fila, che quantificasse. Questa sera presentiamo la prima tappa di questa indagine».

Affrontare il passato dal punto di vista delle migrazioni richiede però anche «di prendere consapevolezza, anzitutto, che le migrazioni sono sempre declinate al plurale. La pluralità è il contesto per il tema delle migrazioni. Nella stampa dell’epoca ricorreva spessissimo la parola «Jugoslavia», invece di bosniaci, serbi, croati. Si potrebbe dire che anche le parole non erano più a sufficienza; un chiaro deficit culturale da parte nostra, secondo il quale tendiamo, ancora oggi, a leggere le persone bidimensionalmente, senza tenere conto della stratificazione del passato, che è invece l’unica via per conoscere davvero».

Altrettanto attenta, nello studio, la ricostruzione della fase di accoglienza in Ticino, con la comunità serba, ad esempio, che si installa e predilige la Leventina, «vista la possibilità di trovare lavoro, allora, presso i cantieri autostradali, la Monteforno, l’Ospedale di Faido. Nasce in quelle zone anche il primo club croato, la prima squadra sportiva…Una comunità che si riorganizza infine grazie all’associazionismo, sebbene venuto meno negli anni a venire, proprio con l’avanzare del conflitto».

Storie di piccoli grandi successi e testimonianze di convivenza «che era giusto raccontare», di cui il volume reca ampia traccia, con interviste ad alcuni testimoni della comunità kosovara, serba, croata, bosniaca e macedone, introdotte da ben otto capitoli di approfondimento: Da qualche parte in basso a destra; La Jugoslavia di Tito; All’inizio fu la Leventina; Storia di un’accoglienza; Alcuni dati statistici; La stagione degli stagionali; Richieste d’asilo; Cognomi ticinesi e una Cronistoria dei conflitti.

«Prevenire i conflitti e tentare di prevenirli: può forse la Svizzera, con il suo DNA, non farlo?», conclude Bernasconi. «Sicuramente non è un compito che spetta a chi definisce le frontiere su basi etniche, come le Nazioni Unite ci hanno insegnato a fare. Bisogna avere il coraggio di uscire da una mentalità etnico-nazionalista e entrare in una mentalità che è quella della società civile. Ripensando magari a Federica Spitzer, alla quale, chiedendole se ci fosse, in lei, odio per i suoi aguzzini rispondeva: «Odio mai, soprattutto per il mio bene». Una piccola testimonianza in mezzo a tanto dolore, ispiratrice del cammino cui abbiamo dato inizio questa sera e durante il quale speriamo di essere seguiti da tutti voi».

Laura Quadri

La tavola rotonda:

4 Maggio 2023 | 12:26
Tempo di lettura: ca. 6 min.
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