Svizzera

Svizzera: voci di donne segnate da un abuso in ambito ecclesiale

Adriana (nome fittizio) è stata molestata sessualmente da un prete nel cantone di Neuchâtel quando aveva nove anni. A quarant’anni di distanza, il suo desiderio principale è che la Chiesa riconosca ciò che le è accaduto. Adriana non voleva più andare a Messa. Le persone intorno a lei non hanno capito subito che il prete aveva qualcosa che non andava. Quello che è successo quando aveva solo nove anni, negli anni ’80, in una parrocchia di Neuchâtel, la porta ancora sull’orlo delle lacrime mentre parla con cath.ch in videoconferenza. «Quello che ho passato io può non essere stato così grave come quello che possono aver passato altri, ma la sofferenza è ancora terribile, a distanza di quarant’anni», dice

Nell’ambito del progetto pilota sulla storia degli abusi sessuali nella Chiesa in Svizzera, commissionato dalla RKZ, dalla CVS e da KOVOS, i cui primi risultati saranno pubblicati il 12 settembre 2023, cath.ch è andata a sentire le speranze, le paure e le rivolte di due donne della Svizzera francese colpite da questa piaga.

Toccata a 9 anni in modo «inappropriato»

La storia di Adriana è purtroppo simile a molte altre nella Chiesa, in Svizzera e nel mondo, che non sono mai venute veramente alla luce. La vergogna, il peso della «gerarchia» e l’innocenza impediscono molto spesso alle vittime di difendersi adeguatamente.

«Non riesco ancora a fidarmi pienamente delle persone».

Per la donna di origine italiana, nata nel cantone di Neuchâtel, il contesto sociale e familiare è stato un fattore determinante. «Vengo da una famiglia molto religiosa, molto devota, dove il rispetto per la Chiesa e per il sacerdote è fondamentale», racconta. Andare a Messa ogni domenica era molto importante. Ad un certo punto queste celebrazioni hanno iniziato a creare un profondo senso di disagio nella bambina. «Il prete mi baciava e faceva gesti molto languidi e inappropriati». Finché, dopo la prima comunione, Adriana fu sottoposta a «toccamenti molto inappropriati da parte del prete».

Non ascoltata da altri sacerdoti

Adriana è riuscita a parlare dell’abuso con alcune persone, tra cui sua madre, per la quale non andare in chiesa la domenica era fuori discussione. «La sua reazione è stata ambigua. All’inizio non mi credeva e continuava a costringermi ad andare a Messa. Ma poi, quando ha notato i gesti che il prete faceva nei miei confronti, ci ha ripensato e ha smesso di insistere per andare a Messa. Questo andò avanti per alcuni anni, finché non accettò che non ci andassi affatto».

Adriana si è confidata anche con altri preti, senza successo. «Mi dissero cose come: ‘quello che ti sta succedendo è del tutto normale’; ‘ogni essere umano ha delle pulsioni’… Naturalmente, non trovai queste risposte soddisfacenti, tali gesti non mi sembravano normali provenendo da un sacerdote, ma dato che diversi sacerdoti mi dicevano questo, ed erano ‘al di sopra’ di me, mi sentii obbligata ad acconsentire; non l’ho mai accettato».

Alla fine, né lei né sua madre osarono sporgere denuncia. «Altre persone che hanno subito il comportamento di questo prete lo hanno fatto. Ma lui è sempre stato scagionato da qualsiasi illecito». Anche le accuse degli adulti non hanno impedito a quest’uomo di fare una brillante carriera nella Chiesa.

La sfida di parlare

Ma il malessere di Adriana non è scomparso. Da adolescente sentiva che qualcosa dentro di lei si era rotto. «Non riuscivo, e non riesco ancora oggi, a fidarmi pienamente delle persone, soprattutto degli uomini. Ho tentato il suicidio, ho attraversato una fase di autodistruzione».

«Non riesco ancora a rompere il legame con la Chiesa».

Per molto tempo Adriana ha taciuto ciò che aveva subito, non trovando il modo di esprimere il suo dolore. Scriveva lettere che poi gettava via. Una serie di cose l’hanno poi aiutata a cambiare prospettiva. In particolare, un cambiamento di carriera che l’ha portata a studiare etica e cultura religiosa. «Questo mi ha permesso di mettere il dito su alcune cose molto difficili, a cui sono riuscita a dare un nome. Ho capito che solo perché la gerarchia era onnipotente non significava necessariamente che fosse giusta, e che quello che mi aveva fatto questo prete non era né giusto né normale».

Un giorno ha sentito parlare del gruppo SAPEC (Il gruppo di sostegno nella Svizzera romanda alle persone abusate in un rapporto con l’autorità religiosa). «A quel punto sono riuscita a mandare un’e-mail. Ho ricevuto una risposta e ho incontrato i responsabili, che mi hanno indirizzato alla CECAR (Commission Ecoute-Conciliation-Arbitrage-Réparation)». Attualmente è in corso una procedura di risarcimento. Per il momento non si tratta di un risarcimento finanziario. «L’idea è di consegnare a mano al prete una lettera che ho scritto. Ma è un processo talmente oneroso che mi è difficile parlarne».

«Distaccata» dalla Chiesa

Adriana è ora sposata e ha figli. Non ha lasciato la Chiesa, anche se ci ha pensato. «Non riesco ancora a recidere il legame, perché sarebbe come tagliarmi fuori dalle mie radici», confida. Eppure la donna ha sperimentato un vero e proprio distacco dall’istituzione. Il suo primo figlio è stato battezzato, ma non è stato iscritto alle lezioni di catechismo e non ha ricevuto la prima comunione. Il suo secondo figlio non è stato battezzato.

«Mi chiedo perché alcuni sacerdoti si impegnino in un percorso che non li soddisfa».

La donna critica una struttura che ha protetto il suo aggressore e gli ha persino permesso di salire di grado al suo interno. «Alcuni sacerdoti sapevano esattamente cosa stava facendo e non hanno detto e fatto nulla. Ora si sta godendo una vita tranquilla in pensione, probabilmente pensando di avercela fatta, o forse non si rende nemmeno conto di quello che ha fatto», lamenta Adriana. «Ritengo inoltre che si tratti di un abuso di potere. Aveva bisogno di sentirsi in controllo di qualcosa. E questo è più facile da fare con i bambini, o con adulti in difficoltà, vulnerabili».

Il tradimento dell’abuso

«I preti sono pur sempre esseri umani, con degli impulsi», dice Adriana. Ma mi chiedo perché si impegnino in un percorso che non gli si addice. Forse bisognerebbe permettere loro di avere relazioni sessuali e famiglie».

Per lei, un’iniziativa come l’indagine nazionale è un passo importante. «Penso che ciò che la maggior parte delle vittime sta aspettando sia il riconoscimento di ciò che hanno subito. Personalmente, non sto tanto aspettando che il mio aggressore confessi – so che non sarebbe sincero – ma per ricostruire la mia vita, per riacquistare la fiducia in me stessa, ciò di cui ho bisogno è soprattutto il riconoscimento da parte della Chiesa stessa».

Un gesto che, per Adriana, servirebbe innanzitutto all’istituzione. È convinta che credere in qualcosa sia importante. Ma oggi ha più fiducia in una Chiesa «spirituale» che va oltre l’istituzione umana. «Gli abusi sono un tradimento della missione della Chiesa e questo è terribile, perché nel mondo di oggi la gente ha davvero bisogno dei messaggi di amore e di speranza che un’istituzione può portare». (cath.ch/rz)/traduzione e adattamento di catt.

Raphaël Zbinden/traduzione e adattamento di catt.ch

Leggi anche la storia di Marie, che nel 1960, quando era bambina ha subito abusi dallo zio prete che le faceva credere di aiutarla, togliendole il diavolo dal corpo

I colleghi di Strada Regina hanno raccolto la testimonianza di una persona vittima di abusi nella Chiesa. Il servizio TV che avrà ospite in studio per un commento il vescovo Alain De Raemy andrà in onda sabato 16 settembre alle 18.35 su RSILA1.

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11 Settembre 2023 | 14:17
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