Storia di una giovane nigeriana finita nelle maglie della tratta

Si fa sentire forte e chiara la voce di Blessing Okoedion, una tra le oltre ventuno milioni di persone vittime di tratta nel mondo, che ne Il coraggio della libertà (Milano, Paoline, 2017, pagine 126, euro 13) ripercorre la sua terribile odissea: giovane laureata e con un lavoro in Nigeria, viene scaraventata con l’inganno sui marciapiedi del sud Italia. Una storia, la sua, che vuole essere un monito. Se infatti questa giovane parla, scrive e testimonia lo fa per salvare altre ragazze dall’inferno della prostituzione forzata. E per cercare di sollevare il velo di ipocrisia, soprattutto — ma non solo — maschile, che finge che nulla di disumano stia accadendo nel nostro mondo.

Cresciuta in una famiglia povera ma piena di dignità, incoraggiata dal padre a studiare — opterà per informatica, essendo medicina troppo costosa nonostante ne avesse superato il test d’ingresso — Blessing arriva, con una laurea in tasca e una gran voglia di costruirsi la sua vita indipendente, a Benin City. All’inizio fatica, ma piano piano riesce a costruirsi una rete di clienti che la apprezzano. Tra gli incontri che fa riparando computer, Blessing diventa amica di Alice, una donna che frequenta regolarmente una chiesa pentecostale. È lei a proporle un giorno di andare a lavorare per il fratello che gestisce dei negozi di informatica in Europa. A Blessing non sembra vero: pur non essendo una italian girl (è il soprannome con cui in Nigeria chiamano quelle che crescono con il mito del vecchio continente), crede si tratti di un’ottima opportunità. In Europa, tuttavia, non c’è alcun negozio ad attenderla. In Europa, per lei, c’è solo il marciapiede.

«Non so come abbia fatto a essere così stupida». Inizia così il racconto di Blessing, che non riesce a darsi pace per la sua creduloneria, lei che comunque aveva sentito parlare del traffico di esseri umani quando viveva a Benin City («pensavo potesse coinvolgere solo persone egoiste e avide o ragazze ignoranti e sprovvedute. Era qualcosa di lontanissimo dalla mia vita, dal mio modo di pensare e di agire»).

È questo uno degli aspetti che più colpisce nel suo racconto: le maglie perverse e subdole della tratta non afferrano inizialmente le loro vittime con la violenza e non fanno necessariamente leva sulla disperazione estrema, ma usano piuttosto le armi del tranello, tra promesse (di un lavoro, di una vita migliore) e seduzione (finti corteggiatori che convincono le vittime a seguirli). La violenza arriva poi, evidentemente, ma è il passaggio successivo. Per questo, ripete di continuo Blessing, il pericolo è così grande: perché qualunque ragazza può finire tra le fauci della tratta sessuale, mercato infernale e in espansione con dieci milioni di prestazioni acquistate ogni mese solo in Italia.

Poi, quando arriva, la violenza sulla vittima è a tutto tondo. La donna trafficata viene infatti trattata alla stregua di un oggetto, di una proprietà privata usata senza limiti e senza regole, se non quelle del profitto. Requisitole il passaporto, le vengono contestualmente tolti la dignità e il diritto all’autodeterminazione. In più, vi sono i ricatti affettivi — con la minaccia di far del male a chi è rimasto a casa — e quelli che fanno leva sulla superstizione e l’ignoranza.

Blessing racconta anche l’altro lato della storia, ancor più doloroso se possibile: quello delle pressioni da parte dei familiari in Nigeria che molto spesso fingono di non sapere da dove venga il denaro che le ragazze spediscono dall’Italia. «Se mandi a casa i soldi, nessuno fa più domande. I soldi sono la verità».

Ma se Blessing non si rassegna alla facilità con cui si è lasciata ingannare, non si rassegna nemmeno all’incubo che sta vivendo, non può accettare di essere stata venduta come una merce per il mercato del sesso a pagamento. «Mi sono aggrappata, quasi senza saperlo — scrive — a quella forza morale che si era consolidata dentro di me a partire dall’esempio di vita dei miei genitori». E così, dopo tre lunghissimi giorni sul marciapiede, scappa in commissariato. «È qui — nota Dacia Maraini nella prefazione — che il suo passato di studio e di conoscenza diventa come uno scudo col quale difendersi, riuscire a parlare, chiedere, informarsi e sarà così che alla fine si salverà».

Un poliziotto che parla inglese la porta infatti a Caserta, dalle suore orsoline di Casa Rut. Quando Blessing capisce che si tratta di donne religiose, il suo rifiuto è totale: per colpa di una pia donna cristiana la sua vita è andata distrutta, «con le donne cristiane non voglio più avere niente a che fare» urla al poliziotto. Ma il sorriso di suor Rita Giaretta, fondatrice di Casa Rut (che, tra l’altro, firma la postfazione al libro), avrà la meglio sulle sue diffidenze. «Una donna cristiana mi ha fatto del male. Una donna cristiana mi ha ridato la vita» chiosa Blessing.

Con il tempo, infatti, la ragazza riesce a liberarsi dalla rabbia e a pacificarsi anche con se stessa, ricostruendo la sua vita e la sua fede. E lo fa comprendendo quale sia ora il suo compito: «Fare la mia parte». Dimenticare o fare finta di niente non sono opzioni possibili. «Dovevo, io stessa, fare tutto quello che era in mio potere per cercare di spezzare le catene di questa orribile schiavitù (…). Dio ha usato una persona straordinaria come suor Rita per liberare me. Ora sento che io devo essere disponibile a fare qualcosa per gli altri».

Per tentare di capire come si sia potuto costruire questo terribile sistema schiavistico, Blessing si sofferma criticamente sia sulla società nigeriana che su quella italiana. Pur con tutte le differenze, infatti, vi sono elementi in comune, come l’ignoranza, la povertà interiore e la misoginia. Forse, per esempio, sia in Nigeria che in Italia «bisognerebbe formare di più l’uomo alla relazione, al rispetto, alla gestione serena e costruttiva della sessualità, per sé e per la donna».

Il coraggio della libertà è scritto a quattro mani con Anna Pozzi, giornalista e saggista che da anni si occupa della tratta e delle moderne schiavitù, e che è stata con suor Eugenia Bonetti tra le fondatrici dell’associazione Slaves no More. Tra l’altro Pozzi firma, a chiusura del volume, un approfondimento sul traffico e lo sfruttamento delle donne nigeriane in Italia, con pagine interessantissime anche sul lato della domanda di prestazioni sessuali. «Punire i clienti può servire a cambiare questa mentalità? Sì e no. O meglio, non basta. Il fenomeno della prostituzione è talmente complesso che non può essere affrontato solo attraverso la criminalizzazione dei clienti, ma chiedendo il «perché» delle cose. E lavorando molto di più soprattutto con e sui giovani. Per prevenire e ridurre la domanda, ma anche per promuovere un modello di società in cui i rapporti uomo-donna siano basati su una reale uguaglianza, sul reciproco rispetto e sul riconoscimento dell’inalienabile dignità e libertà di ciascuno».

(Osservatore Romano)

9 Giugno 2017 | 17:02
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nigeria (28), tratta (35)
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