Gaza
Internazionale

«Serve l’analisi dei singoli contesti, il mondo non è un unico puzzle»

di Cristina Uguccioni

Il prof. Riccardo Redaelli.

Nella regione mediorientale, dopo il feroce, brutale attacco terroristico di Hamas a Israele del 7 ottobre scorso e la durissima reazione dello stato ebraico, stanno scoppiando, settimana dopo settimana, nuovi focolai di conflitto. Per capire cosa sta accadendo e quali sono le vie percorribili per riportare la pace, dialoghiamo con il professor Riccardo Redaelli, docente di Storia e Istituzioni dell’Asia e direttore del Master in Middle Eastern Studies all’Università Cattolica di Milano.

La diplomazia internazionale sta a suo giudizio compiendo ogni sforzo per riportare la pace tra Israele e Hamas? Su questo piano chi sta compiendo gli sforzi più efficaci e significativi?

«Purtroppo la diplomazia internazionale non sta compiendo ogni sforzo possibile, per tre motivi: 1) la grande, imbarazzante debolezza dell’ONU, che ormai nessuno ascolta più; 2) l’esistenza di molti, troppi tatticismi e rivalità a livello internazionale, che rendono molto difficile avviare un’azione coerente. 3) E così rispondo anche alla seconda domanda, la situazione negli Usa. L’amministrazione Biden si sta impegnando moltissimo per arrivare a una tregua ma è evidente che, purtroppo, il governo di ultradestra israeliano, che punta alla vittoria di Donald Trump alle prossime elezioni, non intende ascoltare. E Joe Biden, proprio perché è nell’anno delle elezioni, non può permettersi di discostarsi troppo dalla linea di Israele. In questo quadro spicca la vergognosa assenza della Unione europea che non è andata oltre la solidarietà mentre i singoli Stati continuano a muoversi in ordine sparso».

Quali iniziative ritiene debbano essere intraprese per aprire concrete prospettive di pace tra Israele e Hamas?

«Quanto ha compiuto Hamas il 7 ottobre è un abominio, un crimine contro l’umanità. Ciò, tuttavia, non giustifica la brutale reazione di Israele, che ha causato decine di migliaia di morti. Tale reazione è dovuta a una scelta del premier Benjamin Netanyahu, il quale non vuole far terminare la guerra perché sa che quando il conflitto cesserà lui non sarà più rieletto, sarà un uomo politicamente morto. Ciò che sarebbe necessario fare è mandare un segnale netto: l’amministrazione Biden dovrebbe dire con chiarezza a Israele che limiterà gli aiuti militari e finanziari se non si giungerà a una tregua e il numero di morti non diminuirà. Dato che Hamas ha mostrato di essere un’organizzazione criminale e che l’Autorità nazionale palestinese è di fatto inesistente e screditata, i Paesi arabi moderati dovrebbero essere coraggiosi e proporsi come forze di mediazione e intermediazione temporanea per il controllo della striscia di Gaza una volta terminato il conflitto. A trattenerli, insieme alla mancanza di coraggio, è il timore di non riuscire a controllare Gaza e di rimanere bloccati tra l’incudine e il martello».

L’Iran ha compiuto una serie di attacchi missilistici in Siria, Iraq e Pakistan: cosa si propone di ottenere la Repubblica islamica con questi interventi armati e con il sostegno a una fitta rete di milizie attive in Medio Oriente?

«Il sostegno alle milizie serve all’Iran per affermare la propria posizione strategica nel Golfo, in particolare per alimentare il cosiddetto «asse di resistenza» contro l’Occidente e Israele. Da anni l’Iran è bersaglio di mirate azioni terroristiche: oggi, di fronte ad attacchi da parte dello stato islamico, di gruppi separatisti o di opposizione, i pasdaran, che sono i veri padroni del Paese e sono in grande difficoltà, hanno voluto dare un segnale di forza molto netto per far capire che l’Iran non subirà passivamente. In realtà, però, questi attacchi missilistici sono la dimostrazione della debolezza iraniana».

America e Gran Bretagna hanno effettuato interventi militari congiunti contro le postazioni dei ribelli Houthi in Yemen per bloccare gli attentati alla navigazione nel Mar Rosso, che provocano un danno ingentissimo al commercio internazionale. Anche l’Europa interviene: Italia, Francia e Germania sono in prima fila nella nuova missione militare della Ue, Aspides, il cui proposito è quello di difendere — anche con l’uso della forza, se necessario — navi mercantili e commercio in quel mare. Perché i ribelli Houthi hanno voluto intensificare gli attacchi proprio ora?

«Hanno intensificato gli attacchi per reazione a quanto accaduto a Gaza. Questi ribelli sono considerati delle marionette dell’Iran ma non è proprio così: è vero che sono sostenuti, armati e finanziati dalla Repubblica islamica ma sono un movimento che ha una propria agenda politica: con gli attacchi alle navi mercantili hanno voluto mandare un segnale di sostegno ad Hamas e causare un danno ingentissimo alla comunità internazionale per costringerla a forzare Israele a stabilire una tregua. Mostrandosi come difensori dei palestinesi, questi ribelli hanno ottenuto popolarità e riconoscimento nel mondo arabo. L’azione militare di Usa e Gran Bretagna e la missione europea sono una risposta inevitabile. E costituiscono un messaggio chiaro agli Houthi: nessuno può bloccare la navigazione nel Mar Rosso, che è strategica per il commercio internazionale».

Lei ha affermato che c’è «il rischio che le diverse tessere del puzzle dei conflitti di questa guerra mondiale a pezzi tendano a compattarsi: nonostante praticamente tutti gli attori regionali e internazionali non lo vogliano, lo scivolamento verso una lettura unitaria delle tensioni sembra sempre più forte». Quali fattori favoriscono questa lettura unitaria?

«In Medioriente nessuno vuole un allargamento della guerra tra Israele e Hamas però più il conflitto prosegue più le spinte e le controspinte, le azioni e le reazioni acuiscono il rischio di uno scivolamento verso un allargamento del conflitto dovuto al coinvolgimento anche involontario di qualche attore sulla scena internazionale. Per evitare ciò occorre non cedere a una lettura unitaria delle tensioni che oggi attraversano il mondo: essa è molto superficiale. In Occidente si tende a privilegiare una lettura che divide il mondo in democrazie e dittature e che ci riporta ai tempi della guerra fredda e ai due blocchi contrapposti: noi occidentali, i buoni, e i sovietici, i cattivi. Oggi si tende a considerare quanto accade nel mondo come parte di uno stesso puzzle ma non è così, il mondo è molto più complicato: l’Iran che attacca il Pakistan non è un fenomeno connesso a quanto accade a Gaza, le tensioni tra Cina e Taiwan non sono collegate alla guerra in Ucraina o a quella in Medioriente. Bisogna avere fine capacità di analisi dei singoli contesti. E bisogna evitare di dividere il mondo tra amici e nemici, tra due blocchi contrapposti perché questa lettura semplificatoria porta a interpretazioni sbagliate e pericolose».

La UE mostra di possedere questa capacità di analisi?

«La posseggono alcuni membri della Commissione Europea e soprattutto l’alto rappresentante della UE per gli affari esteri, Josep Borrell. Il problema è che Borell conta poco: a contare davvero sono i singoli Stati membri nei quali il livello del dibattito pubblico in tema di politica estera è modestissimo. Tutto ciò rende la UE un attore pressoché insignificante a livello internazionale».

Gaza | © unsplash
12 Febbraio 2024 | 08:26
Tempo di lettura: ca. 4 min.
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