Ticino e Grigionitaliano

Morte e dolore: parlarne fa bene e ci rende più umani

di Silvia Guggiari

In occasione della commemorazione dei defunti del 2 novembre, abbiamo provato a sviluppare il tema della morte con la prof.ssa Ines Testoni, docente di Psicologia sociale all’Università degli Studi di Padova, Direttrice del Master «Death Studies & The End of Life» (www.endlife. psy.unipd.it), che sabato 4 novembre sarà ospite nella puntata di Strada Regina (ore 18.35 RSI La1).

Prof. ssa Testoni, nella nostra epoca, qual è lo spazio che la società dedica alla morte?

L’ars moriendi (l’arte della morte, ndr), che ha caratterizzato tutta la storia dell’Occidente dall’antica Grecia fino all’Ottocento, ha subìto un cambiamento radicale nel Novecento. L’avvento della società della tecnica ha messo in crisi i linguaggi religiosi fino ad allora dominanti, in particolare quelli riguardanti le religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo e islam) che hanno sempre orientato i comportamenti dell’Occidente. Oggi, per quanto ci sembri di abitare una società felice celebrata dai messaggi pubblicitari che spesso ci vendono «la felicità con un biscotto» – rimuovendo in maniera sistematica la riflessione sulla morte, quindi il perché stiamo al mondo, da dove veniamo e cosa ci attende dopo – di fatto viviamo in una condizione di profondo sconforto perché in tutte le case c’è sempre qualcuno che sta male. Non esiste una famiglia che non debba fare i conti con una preoccupazione importante che spesso riguarda la salute. La censura della morte nella nostra epoca ha prodotto un esito drammatico: quando arriva una diagnosi infausta, capita che familiari e amici non si uniscano intorno al malato e alla famiglia, ma si dileguino sentendo minacciata la propria felicità. Viviamo in una società in cui non siamo capaci di essere solidali con chi deve morire e tanto meno con chi soffre per la morte di qualcuno. Questo è un problema culturale: le persone non è che non siano solidali a priori, ma manca il linguaggio per essere solidali piuttosto che per porgere le nostre condoglianze. Non sappiamo come si fa. E proprio perché non sappiamo come si fa e non comprendiamo il senso della vicinanza, spesso non partecipiamo neanche al rito funebre.

Cosa vuol dire elaborare il lutto?

L’elaborazione del lutto consiste nella trasformazione della sofferenza individuale per la perdita di qualcuno, anche un animale. Il cordoglio, ovvero «il problema del cuore», può essere elaborato e trasformarsi in un’occasione di crescita solo se la persona che soffre trova una sponda sociale capace di trasformare questo vissuto in una relazione significativa. Un cordoglio non elaborato è un dolore che rimane come piaga aperta, corrodendo la nostra vita e rendendoci incapaci di viverla e di stare bene. Le comunità religiose rielaborano nella maniera migliore questo passaggio: si lavora insieme per ricostituire la lacerazione prodotta dalla morte alla luce del simbolismo che rimanda a Dio. Quando però i credenti non appartengono a una comunità, la cosa più semplice che può accadere è quella di sentirsi vittima di un’ingiustizia esistenziale, di trovarsi soli e spesso quello che accade è di perdere la fede in Dio. Nella nostra società, e quindi spesso anche nelle nostre parrocchie, manca totalmente un servizio funzionale al supporto del terrore della morte prima che questa arrivi e manca il supporto a chi sta vivendo il lutto, per aiutare a superare il dolore e a dargli un senso.

Vorrei dunque lanciare un appello alle parrocchie e alle comunità religiose in Ticino perché attivino una équipe per aiutare le persone nella rielaborazione del lutto. Io sono disponibile per lavorare in questa direzione.

Come è cambiato il rapporto tra spiritualità e morte in quest’epoca di crisi della religiosità?

In questa epoca stiamo valorizzando in modo esplosivo il concetto di spiritualità che è entrato nel nostro linguaggio proprio nel momento di crisi della religiosità. La spiritualità è innata nella condizione umana: ci permette di essere in contatto con la natura e con quella parte di noi che ci trascende. Nel corso del Novecento, abbiamo costruito un mondo secondo regole rigorosamente materialiste, pensiamo alla «morte di Dio» di Nietzsche, un mondo che non voleva più teocrazie, che non voleva più che le religioni divenissero politica e lo vediamo bene in questi giorni con la guerra in Medio Oriente. Abbiamo così costruito una società che nasconde il dolore, che per forza di cose riguarda tutti e che infetta tutta l’esistenza, e siamo rimasti senza linguaggio per capire la nostra grande esperienza interiore alla quale non sfugge nessuno.

Secondo lei, come si può educare alla morte oggi?

Dirigo un master di un anno in «Death Studies & The End of Life» (»Studi sulla morte e sul fine vita», ndr) con contenuti filosofici e interreligiosi: vi partecipano medici, infermieri, insegnanti, fisici, ma anche altre figure professionali che in qualche modo si trovano ad avere a che fare con la morte. All’interno del master, che prevede sei mesi di lezioni nel weekend con la possibilità di seguirle online, propongo innanzitutto ai partecipanti di rendersi conto che hanno paura della morte e cosa significa ciò; di capire che rimuoviamo la paura della morte perché non la sappiamo gestire e quali sono gli effetti della rimozione di questa paura. Chiedo dunque alle persone cosa credono che significhi morire, e qui si rendono conto che non lo sanno e che quindi hanno paura di qualcosa che non conoscono.

Si dice che della morte non c’è niente da sapere, ma della morte c’è molto da dire.

Lei che idea si è fatta della morte?

Io sono una filosofo-eternalista: ciò che ci attende dopo la morte è l’eternità che già da sempre ci appartiene e che nessuno ci può togliere. Come dice Emanuele Severino «Io so che siamo già da sempre salvi».

È difficile accompagnare i propri cari negli ultimi istanti di vita. Come si può rimanere al loro fianco in maniera sincera ed empatica?

La prima cosa è non usare parole sbagliate, per fare ciò dobbiamo metterci in ascolto empatico dell’altro; ma questo possiamo farlo solamente dopo che ci siamo guardati dentro e abbiamo ammesso a noi stessi la paura di stare accanto a questa persona perché quello che sta vivendo prima o poi lo vivremo anche noi. Dobbiamo muoverci verso l’altro, aprendo il cuore e con la disponibilità di sentirsi in comunione con quella persona. Non è necessario parlare tanto, se non sappiamo cosa dire è meglio il silenzio.

1 Novembre 2023 | 16:36
Tempo di lettura: ca. 4 min.
2 novembre (5), defunti (18), ines testoni (1), morte (32)
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