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Le nomine a Roma e Milano, l’indicazione di un metodo

Il 26 maggio e il 7 luglio scorsi sono state rese pubbliche le nomine di due nuovi pastori diocesani, destinate a pesare non poco sul futuro della Chiesa italiana. Con la designazione di Angelo De Donatis quale nuovo Vicario di Roma Francesco ha scelto un ex parroco da lui nominato vescovo ausiliare, che per i ruoli ricoperti è stata figura centrale nel rapporto con i sacerdoti della diocesi. Il 7 luglio, accelerando i tempi della successione al cardinale Angelo Scola su richiesta esplicita di quest’ultimo, Papa Bergoglio ha nominato suo successore alla guida della diocesi più grande e importante d’Europa e tra le più importanti del mondo, monsignor Mario Delpini, fino a quel giorno vicario generale, già stretto collaboratore degli ultimi tre arcivescovi ambrosiani.

C’è chi ha visto in queste scelte, interne e dai profili meno roboanti, un cambio di passo rispetto a quanto avvenuto negli anni precedenti, ad esempio con le significative nomine dei vescovi di Padova, Bologna e Palermo, caratterizzate da scelte più profilate di outsider. Secondo tale interpretazione, nei casi di Roma e Milano il Pontefice avrebbe optato per soluzioni più ordinarie: quasi un ripiegamento. In particolare proprio la scelta di Milano è sembrata deludere qualche sedicente «bergogliano» che auspicava una nomina di rottura con il passato per meglio marcare la sintonia con «la Chiesa di Francesco», come se davvero potesse esistere una «Chiesa di Francesco» invece dell’unica Chiesa di Cristo. E ha deluso anche qualche piccolo gruppo interno al clero milanese, che desiderava un «papa straniero», cioè qualcuno che venisse da fuori per immergersi ex novo nella complessa realtà di una diocesi gigantesca. Ancora, sono rimasti spiazzati anche coloro i quali hanno segnalato nomi improbabili nella recondita speranza di vedere nominati loro amici.

Venerdì 7 luglio, nel momento dell’ufficializzazione della sua nomina quale successore di Scola, il nuovo arcivescovo di Milano Mario Delpini ha presentato sé stesso come un «brav’uomo» ma «mediocre», non il «santo», il «genio» né il «carismatico trascinatore» che sarebbe servito per un ruolo così importante.Eppure proprio questo atteggiamento umile e semplice, non privo di punte di ironia, ha segnato un significativo cambio di passo e indicato una peculiarità del nuovo pastore. Uomo ascetico, povero (è stato proprio Scola presentandolo a indicare la caratteristica della sua «grande povertà»), di preghiera, capace di dialogo. Esperto in patrologia ma autore di libri di fiabe per bambini, avvezzo a predicare con piccoli esempi tratti dalla vita quotidiana e dalla sua esperienza familiare. Conscio lui stesso di essere in qualche modo «schiacciato» dalla caratura e dalla bibliografia dei suoi immediati predecessori. Eppure proprio questo sincero senso di inadeguatezza potrebbe fare emergere ancora di più e ancor meglio che in passato un dato fondamentale: è Gesù Cristo la roccia, è Lui a guidare la sua Chiesa («Ecclesiam Suam», non di questo o di quell’altro Papa e nemmeno di questo o di quell’altro arcivescovo). Allo stesso modo anche a Roma, con la scelta di De Donatis, questa pure interna, Francesco ha mostrato di preferire una leadership più pastorale e legata all’ordinarietà della vita ecclesiale. Con la caratteristica comune, sia nel caso di Roma che di Milano, di una particolare attenzione al rapporto con i preti.

Che cosa dunque è mutato rispetto alle nomine degli ultimi due anni? C’è stato davvero un cambiamento, magari in una direzione più prudente? In realtà questo modo di argomentare rischia di trascurare un elemento cruciale. Non esiste uno specifico identikit di vescovo adatto per ogni diocesi. Fondamentale nella scelta del pastore – e questo vale anche per la scelta del Vescovo di Roma, come dimostrano le discussioni pre-conclave – è comprendere quali siano le priorità e le maggiori necessità della diocesi. Priorità e necessità specifiche, che non sono le stesse in ogni tempo e in ogni luogo. È persino ovvio osservare che, in generale e in ogni latitudine, ci si aspetta da un vescovo che creda in Gesù Cristo, sia un uomo di preghiera, non sia un carrierista, sappia predicare facendosi capire dal suo popolo, sia vicino alla sua gente e non viva come un principe isolandosi nel suo palazzo. Ma, detto questo, nel processo che contribuisce alla scelta è fondamentale soprattutto comprendere ciò che è più urgente per la Chiesa locale da affidare alla guida del nuovo vescovo.

In questa prospettiva, invece di focalizzarsi sulla percentuale di straordinarietà della scelta, è più utile chiedersi a quali priorità rispondono nomine come quelle di De Donatis e di Delpini. Nel caso di Milano, ad esempio, è evidente da una parte la scelta non di rottura – il nuovo arcivescovo è stato nominato rettor maggiore di Venegono da Carlo Maria Martini, ausiliare da Dionigi Tettamanzi, vicario generale incaricato della formazione del clero da Scola – ma al tempo stesso anche l’originalità: Delpini non è ascrivibile a cordate o partiti ecclesiastici, ha vissuto in povertà e semplicità da prete e da vescovo prima dell’arrivo di Francesco e dunque è pastore «con l’odore delle pecore» che non ha bisogno di cambiare il curriculum con qualche sbianchettata adeguandosi a nuove parole d’ordine «bergogliane». 

Con la sua scelta, il Papa sembra voler indicare alla grande diocesi ambrosiana la strada di una minore preoccupazione per le strutture, per l’organizzazione perfetta e in qualche caso non aliena dall’autocompiacimento, per i rapporti istituzionali. E, al contempo, la strada di una maggiore sottolineatura dell’importanza della vita ordinaria della Chiesa, fatta di preghiera, liturgia, carità. Quella Chiesa di popolo che ancora esiste nella diocesi ambrosiana, come ha ben sottolineato il cardinale Scola al termine della visita pastorale raccogliendo le indicazioni emerse dalla visita del Papa a Milano. Una Chiesa meno ripiegata su sé stessa, sul lamento per ciò che non va nella società. Una Chiesa più capace di essere portatrice di gioia andando incontro a tutti, senza mai rinunciare all’unico vero motivo per cui sta al mondo: «Vorrei dire che io sono un prete, quindi il messaggio che posso dare alla città – ha detto Delpini – è quello di ricordarsi di Dio».

Non è infine da sottovalutare l’elemento della vicinanza e della conoscenza del clero, che accomuna il nuovo vicario di Roma e il nuovo arcivescovo ambrosiano. La cura del rapporto con i preti è la cartina di tornasole, la sfida su cui si gioca ogni episcopato, perché se è vero che il vescovo deve essere accessibile a tutti, capace di mostrare vicinanza alla gente, è altrettanto vero che il primo passo di questa vicinanza si concretizza con la sua paternità nei confronti dei suoi preti. E paternità significa pazienza, disponibilità all’ascolto, farsi carico dei problemi sapendo essere prossimo a chi è più in difficoltà. Anche in questa prospettiva, le nomine di Roma e Milano non segnano affatto un cambio di direzione rispetto al recente passato, ma rappresentano invece un’indicazione per il futuro delle due diocesi.

(Andrea Tornielli / Vatican Insider)

Il Sinodo
11 Luglio 2017 | 11:55
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