La prof.ssa Astrid Kaptijn. Foto Maurice Page. Cath.ch.
Ticino e Grigionitaliano

La prof.ssa Astrid Kaptijn dopo il Rapporto di Zurigo: «Più trasparenza e attenzione alle vittime di abuso: le sfide oggi del diritto canonico».

Una maggiore tutela delle vittime e uno sforzo maggiore di trasparenza: sono queste alcune delle misure che il diritto canonico potrebbe intraprendere nel prossimo futuro a seguito dell’emergere, anche in Svizzera, di casi di abuso in ambito ecclesiale. Ne è convinta Astrid Kaptijn, professoressa di diritto canonico alla Facoltà di teologia dell’Università di Friborgo, che, quale membro del Comitato scientifico istituito in occasione della ricerca condotta presso l’università di Zurigo su questi casi, ne ha potuto seguire da vicino lo sviluppo, fino al Rapporto conclusivo.

Prof.ssa Kaptiijn, in questi giorni sono giunte anche alcune critiche allo studio realizzato dall’Università di Zurigo, ritenendolo non sufficientemente «scientifico». Ma di fatto l’esistenza di un Comitato scientifico, di cui lei è stata parte, può sicuramente garantire la scientificità del lavoro svolto. Può spiegarci meglio qual è stato il compito effettivo di questo Comitato scientifico e in che modo ha potuto interagire con le ricercatrici che hanno poi concretamente portato avanti lo studio? Qual è stato il senso e lo scopo di istituire questo Comitato scientifico?

«Il Comitato scientifico per l’indipendenza e la scientificità del progetto è stato istituito dalla Società Svizzera di Storia, che ha voluto includervi, per la maggior parte, professori di storia con esperienza nelle ricerche d’archivio. Il Comitato ha regolarmente avuto riunioni con le due professoresse incaricate dell’effettiva realizzazione dello studio e i loro collaboratori, per decidere quali archivi potessero essere consultati, per discutere i problemi incontrati o per chiarire aspetti del funzionamento della Chiesa e delle sue procedure. Infine, abbiamo discusso la stesura concreta del Rapporto».

L’ultimo importante intervento del Papa sul tema degli abusi risale allo scorso marzo, quando ha varato l’aggiornamento della Lettera apostolica in forma di motu proprio «Vos estis lux mundi». Ma qual è poi l’applicabilità effettiva, nelle Chiese particolare, delle norme decise in Vaticano in tema di abusi?

«Il nuovo motu proprio del Papa abroga quello precedente, varato nel 2019. Nel frattempo, nel 2022,  il Dicastero per la Dottrina della Fede ha a sua volta divulgato un vademecum che indica la procedura che i vescovi devono seguire a livello locale per la gestione dei casi di abuso, come, tra i tanti aspetti, la conduzione delle indagini in caso di abuso, le sue tappe o le modalità di trasmissione a Roma. Da quando San Giovanni Paolo II per primo, nel 2001, varò le prime norme in materia, sono trascorsi 22 anni, un arco temporale in cui il Vaticano è ritornato sulla questione degli abusi dieci volte, per mano del Papa o degli uffici curiali. Ciò dimostra, a mio modo di vedere, la volontà di prendere in considerazione sempre meglio tutti gli aspetti della questione. Ma se si parla del rapporto tra il Vaticano, la Chiesa universale e quella particolare ovviamente è responsabilità dei vescovi garantire un aggiornamento costante. Le ultime modifiche alla normativa in materia di abusi da parte dei Vescovi svizzeri risaliva al 2019, mentre è finora mancata una nuova regolamentazione che recepisse  le nuove norme varate negli ultimi anni».

Un canone preciso del diritto canonico, balzato alla cronaca in questi giorni, richiede che «si distruggano i documenti che riguardano le cause criminali in materia di costumi, se i rei sono morti oppure se tali cause si sono concluse da un decennio con una sentenza di condanna». Come si può continuare a giustificare questo canone, la sua esistenza e come vedere la posizione dei vescovi svizzeri che hanno invece dichiaratamente promesso, dopo il rapporto di Zurigo, di non rispettarlo più?

«Il rapporto di Zurigo ha avuto una grande attenzione per gli archivi essendo stato affidato a un gruppo di storici. Questa sarà anche la prospettiva futura. I vescovi hanno a questo proposito molto insistito sul comportamento a cui attenersi in futuro. È una buona cosa, ma la questione è complessa. Anche una ricercatrice del gruppo di ricerca ha osservato che la distruzione di materiale, presso archivi che raccolgono una documentazione pluricentenaria, non è una cosa inusuale, per il fatto che spesso manca lo spazio per conservare tutto. La vera domanda è un’altra: perché sottomettere a questa procedura proprio gli archivi segreti delle Diocesi e non altre sezioni? Questa è una difficoltà da molto tempo, anche in altri Paesi dove sono state portate avanti ricerche analoghe. L’origine del canone in questione risale al 18esimo secolo, dunque è abbastanza datato. Ed è un dato  di fatto che non è più adatto al tempo odierno. Se una norma, come in questo caso, non risponde più ai bisogni della comunità dei fedeli, cade in desuetudine, è cioè logico ed evidente, che a un certo momento non sia più applicata. Nella storia della Chiesa è capitato molte volte. Quello che sta accadendo ora in Svizzera non indica che i Vescovi non vogliano rispettare il diritto canonico ma che hanno deciso che nel campo degli abusi sessuali vi siano valori più importanti a cui fare riferimento. Ed è coerente: il diritto segue e promuove la vita».

Mons. Bonnemain ha dichiarato che tra le misure auspicabili vi sia una trasmissione di informazioni più chiare, di Diocesi in Diocesi, qualora avvengano degli spostamenti tra il personale attivo nella pastorale, istituendo anche dei «dossier». Come vede la praticabilità di questo aspetto da un punto di vista giuridico?

«In questo caso si tocca anche la legge civile sulla protezione dei dati, per cui non so se vi sarà l’esatta praticabilità di questo aspetto. Bisogna capire se ci vuole il consenso o meno della persona coinvolta su cui si trasmettono i dati. Ma sicuramente rimane possibile una comunicazione almeno nella forma orale. I casi di sacerdoti trasferiti sono molti, anche in Svizzera. Il Vescovo deve essere informato e sarebbe giusto che si informasse qualora non ricevesse informazioni. Tuttavia non viene sempre fatto ed è certamente problematico. Se si riuscisse effettivamente a creare questi dossier o anche un registro nazionale, in accordo con i vincoli della legge civile,  faciliterebbe una conoscenza esatta dello stato della persona».

I ricercatori zurighesi si sono lamentati di non aver potuto avere accesso alle carte vaticane e della Nunziatura. Cosa prevede in questo caso il diritto canonico?

«Tutto ciò che è negli archivi dei Dicasteri della Curia romana sono documenti papali. La Curia lavora infatti in aiuto del Papa. E ciò vale anche per la nunziatura: i suoi archivi sono coperti dal segreto pontificale, perché riguardano le decisioni del Papa stesso. Questo materiale alla fine rientra negli archivi segreti vaticani, considerati archivi privati del Papa, aperti normalmente solo 70 anni dopo un pontificato. Ma ci sono delle eccezioni. Nel 2020 sono stati aperti per consultazione, dunque anche per i ricercatori, gli archivi di Papa Pio XII, morto nel 1958 e dunque il periodo di 70 anni in questo caso non è stato rispettato in modo preciso. In ogni caso, mi ha fatto piacere leggere nella stampa che mons. Krebs, nunzio apostolico in Svizzera, ha intenzione di valutare con Roma l’apertura degli archivi. Si può sperare che qualcosa cambi».

Potrebbe in generale, il diritto canonico, perfezionarsi ancora di più in vista di maggiore trasparenza sul tema degli abusi? Si potrebbe ad esempio ipotizzare, all’interno della sezione penale del CIC, un capitolo apposito dedicato alle vittime?

«Sicuramente nell’ambito della trasparenza è possibile migliorare molte cose. Sarà un tema certamente discusso nel Sinodo ad ottobre. Anche il tema della sinodalità tocca infatti la questione della trasparenza. Se la Chiesa vuole stare attenta a tutti i fedeli, coinvolgerli in un certo modo attivo, ciò implica necessariamente questo valore: bisogna comunicare ai fedeli le cose. Se si mantiene invece l’idea che la comunicazione sia una cosa esclusiva tra il Papa e la Curia romana o i vescovi, significa che c’è una categoria che rimarrà sempre esclusa dalla comunicazione. La Chiesa sinodale, per contro, vuole responsabilizzare e coinvolgere tutti. Per quanto riguarda le vittime, sarebbe anche in questo caso sicuramente opportuno precisare maggiormente i loro diritti, soprattutto per la parte del codice che riguarda i processi, dove attualmente questi diritti non sono del tutto espliciti, sottoponendo i canoni a un’applicazione molto parziale. Il fatto che le cose non siano esplicitamente dichiarate, lascia che qualcuno, un giudice, possa completamente dimenticare questi diritti. Gli stessi avvocati, senza una base giuridica per rivendicare i diritti dei loro protetti, non possono intervenire con la sicurezza di essere ascoltati. Oggi il codice prevede che le vittime possano richiedere un risarcimento, tuttavia esse non possono intervenire nel processo penale come tale per portare delle prove, chiedere un complemento di indagine, avere accesso agli atti del processo. È una normativa molto limitata, che sarebbe sicuramente utile cambiare».

Potrebbe l’insabbiamento di prove divenire concretamente punibile attraverso una norma?

«Non insabbiare significa considerare fin dall’inizio, quando il caso viene segnalato, tutta la questione. L’insabbiamento viene per ora punito con una punizione disciplinare. Già il documento del 2019, varato dal Papa, prevede per i Vescovi che non hanno trattato bene casi di abuso, ad esempio eludendo le indagini o ritardandole, che vengano segnalati al Metropolita. In Svizzera non vi è questa figura, ma attualmente indagini e compiti simili sono stati affidati a mons. Bonnemain. Ne può seguire la comunicazione al Dicastero per i Vescovi e una sanzione disciplinare. La norma del 2019, in parte già formulata in un altro documento del 2016, non è molto nota, ma sarà opportuno insistere perché  è molto centrale nelle procedure giuste riguarda a questi casi.

Cosa può dirci infine dell’importanza di istituire un Tribunale penale valido per tutte le Diocesi, come annunciato dai vescovi svizzeri, per il giudizio dei casi di abuso? Cosa potrà significare nel concreto per la procedura di giudizio dei casi di abuso?

«È una novità per la Svizzera ma non per altri Paesi: un tribunale di questo genere ha iniziato il proprio lavoro, nel dicembre del 2022, in Francia. Penso che i vescovi svizzeri abbiano pensato proprio a questo caso, operando probabilmente alcune riflessioni. Un tribunale nazionale implica che i vescovi non abbiano più l’obbligo di condurre processi e di dare responsabilità per un processo al tribunale diocesano. Si attua una delocalizzazione che permette di essere maggiormente imparziali nei giudizi, senza che, ad esempio, un prete debba giudicare un confratello conosciuto, magari un compagno di studi. D’altra parte ciò permette di istituire un gruppo di esperti nel campo del diritto penale. Non tutte le persone che lavorano oggi nei tribunali diocesani hanno queste competenze, perché finora i tribunali diocesani spesso si occupano di un altro campo del diritto, quello matrimoniale, per le nullità. Un tribunale nazionale permetterà di avere un gruppo di  veri esperti  e sarà importantissimo di coinvolgere ancora di più dei laici. Parecchie funzioni in un tribunale di questo genere possono infatti essere assunte da laici. In un tribunale penale ci vuole sempre un collegio di tre giudici; uno dei tre può essere laico, così come un laico può avere il compito del promotore di giustizia – una sorta di procuratore all’interno del procedimento processuale – o di avvocato. Se i vescovi svizzeri saranno attenti a questo aspetto ciò potrà contribuire a una trasparenza e a una imparzialità ancora maggiore».

Laura Quadri

La prof.ssa Astrid Kaptijn. Foto Maurice Page. Cath.ch. | © cath.ch
30 Settembre 2023 | 18:13
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