Commento

«In Medio Oriente la spartizione non vincerà»

«Vuole la verità? Tanti nostri popoli in Medio Oriente oggi non possono decidere il loro futuro; sono gli altri a decidere per loro. Ecco, io penso che la crisi stia tutta qui». In queste ore di grande tensione per il Medio Oriente, monsignor Mounir Khairallah, vescovo maronita di Batroun in Libano, segue da Milano le notizie in arrivo dalla Siria. Domani amministrerà la cresime nella parrocchia di San Nicolao della Flue, lunedì sera parlerà a Tradate. Ma intanto sui cieli del Medio Oriente l’attacco missilistico in risposta al presunto uso delle armi chimiche al quartiere della Ghouta a Damasco è scattato. E anche se – per ora – le operazioni militari appaiono di portata limitata, il timore di una escalation rimane e preoccupa ovviamente anche il Libano, paese in prima linea dove molti dei profughi siriani hanno trovato rifugio.

 

Monsignor Khairallah, che cosa sta succedendo? 

«Non voglio entrare direttamente nelle questione politiche di queste ore. Però vediamo chiaramente la lotta degli interessi in campo in Medio Oriente. Mi ricorda quanto accadde già nel XIX secolo; anche allora la Russia era entrata in campo in concorrenza culturale e religiosa rispetto alla penetrazione del mondo protestante anglosassone e di potenze cattoliche come la Francia. Anche allora sotto le etichette religiose c’erano interessi politici ed economici e il risultato fu la spartizione al termine della prima guerra mondiale. La stessa cosa sta succedendo ora: gli americani parlano espressamente di un nuovo Medio Oriente. Con Israele e l’Arabia Saudita vogliono una nuova geografia dai confini confessionali: come Israele è uno Stato per gli ebrei, vorrebbero creare in Libano uno Stato per i cristiani, in Siria uno Stato per gli alawiti, un altro per i sunniti tra Siria e Iraq, una nazione per i curdi… E la Russia, da parte sua, dietro la difesa delle minoranze cristiane porta avanti i suoi interessi geopolitici. Non penso si arriverà alla guerra aperta fra di loro; ma ciascuno oggi cerca di dire: sono io il padrone».

 

E l’Iran? C’è molta preoccupazione in Occidente per la sua avanzata in Medio Oriente.

«In Libano non c’è nessuna preoccupazione per l’Iran. Teheran è un diavolo per gli americani e per Israele. Ma a noi non fa paura quanto i sauditi. Perché è stata l’Arabia Saudita con i Paesi del Golfo a finanziare per centinaia di miliardi di dollari la guerra sotto la bandiera di questo estremismo, rinfocolando lo scontro tra sunniti e sciiti. Adesso dicono che non hanno mai appoggiato l’Isis o altri, che li combattono. Va bene. Ma non vengano a dirci che l’Iran è il nemico. Per noi Teheran è lontana. È solo la politica israeliana ad aver bisogno di questo spettro per incutere paura».

 

In questo contesto qual è il ruolo delle Chiese?

«Essere una presenza che testimoni l’amore di Dio verso tutta l’umanità, mostrare che si può vivere insieme tra religioni, confessioni, appartenenze politiche, appartenenze culturali. È il ruolo della Chiesa e soprattutto il ruolo del Libano che già Giovanni Paolo II chiamava «Paese messaggio». Noi diciamo alle grandi potenze: non andiamo verso i fondamentalismi o gli estremismi che sfociano nel terrorismo. Ma loro non l’accettano: cercano la guerra per mostrare che non si può vivere insieme. La storia dei nostri Paesi, al contrario, è fatta di comunità composite: il Libano, la Siria, ma anche l’Egitto, l’Iraq sono culla di diversità etniche, culturali, religiose. Per questo, nella regione che è la terra di Cristo, dobbiamo rimanere i testimoni della vita insieme, del servizio a ogni uomo che ha diritto di vivere nella sua dignità, nella sua libertà e di godere di tutti i suoi diritti».

 

Ma questo è ancora possibile anche in Siria, nonostante quanto accaduto negli ultimi sette anni?

«Certo. Sul terreno reale vediamo che la Siria oggi è già divisa in due o tre parti almeno. Ma non può reggere, perché è una divisione imposta. Una Siria smembrata è quanto vorrebbe Israele, ma si sbagliano: i Paesi confessionali non sono il futuro. Altrimenti la prospettiva è quanto sta accadendo adesso: andiamo solo verso l’esclusione dell’altro, verso il fanatismo, le chiusure e non potrà durare in eterno. Lo stratagemma della divisione non è riuscito in Libano dopo venti o trent’anni di guerra. Non riuscirà nemmeno in Siria».

 

Intanto però resta il dramma dei profughi siriani…

«Il Libano ne sopporta il peso più grande: siamo un Paese geograficamente piccolo, con appena 4 milioni di abitanti. Per noi accogliere un milione e mezzo di rifugiati siriani – che vanno ad aggiungersi ai 500mila palestinesi che sono in Libano da ormai settant’anni – è un carico gravoso a tutti i livelli. Lo abbiamo accettato per non negare ai siriani il diritto alla vita, a fuggire dalla guerra. Ma da soli non ce la facciamo più. Arriva il 10% degli aiuti internazionali: ci promettono miliardi e arriva qualche milione. E il risultato è che ne risente tutto il Libano: i cittadini sotto la soglia della povertà sono saliti al 35%, un dato impensabile dieci o vent’anni fa. I libanesi non vogliono cacciare i siriani; ma così non può andare avanti»

 

E quale altra prospettiva è possibile?

«L’unica strada è riportare la pace in Siria. E – nonostante le cronache di queste ore – io sono convinto che ormai sia vicina. Perché oggi il vero affare non è più la vendita delle armi, ma la ricostruzione. I calcoli americani due anni fa stimavano in 300 miliardi di dollari questo business, oggi sono diventati 400 miliardi di dollari. Chi era interessato a far scoppiare la guerra per vendere le armi adesso mirerà a questo. Certo, l’intervento della Russia ha scombinato i piani, mettendo in gioco anche i suoi interessi. Ma alla fine ciascuno prenderà la sua parte. Ed è di questo che oggi si sta discutendo già ai tavoli che contano»

Giorgio Bernardelli – VaticanInsider

16 Aprile 2018 | 17:30
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