il cardinale Dieudonné Nzapalainga
Internazionale

Il cardinale centrafricano Nzapalainga: «Ve lo dico perché l’ho vissuto: è possibile costruire la pace»

È il primo maggio del 2018 quando degli spari interrompono i canti durante la messa nella chiesa cattolica di Fatima a Bangui, nella Repubblica Centrafricana. Una milizia criminale armata con sede nel Kilometre Cinq di Bangui, un quartiere prevalentemente islamico, ha circondato il complesso della chiesa e ha aperto il fuoco per più di un’ora, uccidendo 16 persone e ferendone un centinaio.

Lo strascico di terrore e di lutto di chi c’era e non ha subito ferite visibili è parte della vita di chi abita in questo Paese che – come dice il suo nome – si trova nel centro del continente africano, senza sbocco sul mare e con un indice di sviluppo umano tra i più bassi del pianeta.

Ma questi dati non spengono la luce di questo piccolo Paese, dove per secoli le fedi diverse si intrecciano persino all’interno delle medesime famiglie. Come è accaduto al piccolo Dieudonné Nzapalainga, nato – quinto di dieci fratelli- nel 1967 all’interno di una delle più povere famiglie del già povero quartiere di Bangassou, nel sud est del Paese: suo papà era cattolico, la mamma protestante. Vi presentiamo la sua storia, come l’ha voluta raccontare lui, che oggi è il più giovane cardinale della Chiesa cattolica, nel libro recentemente uscito per la Libreria Editrice Vaticana, dal titolo «La mia lotta per la pace» con la prefazione di Andrea Ricciardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio.

Il coraggio del Papa

Riavvolgiamo indietro il nastro del tempo: siamo a Bangui, il 1° dicembre del 2015. Papa Francesco al grido di «Siriri» (pace) in lingua sango – la lingua parlata in Repubblica Centrafricana – apre l’anno giubilare.

«Il Papa – commenta il cardinale – ha compiuto un gesto altamente simbolico. Mai nella storia della Chiesa, una porta santa è stata aperta al di fuori di Roma. In Centrafrica le porte erano chiuse: ci si voltava la schiena, ci si accusava, non ci si voleva guardare in faccia. Francesco ha osato venire e aprire questa porta per dire a noi centrafricani: «aprite gli sguardi, aprite gli occhi, aprite i cuori per accogliere il messaggio di Dio che passa attraverso l’altro». Il Papa si è recato in un quartiere chiamato enclave Pk5e e la sua venuta ha permesso a tutti i fratelli musulmani di uscire dal quartiere. Se non lo avete ancora fatto, vi invito a leggere l’Esodo. E quando l’avrete letto immaginate che quei fatti narrati io li ho visti con i miei occhi in Centrafrica: il giorno prima c’erano le barriere, il giorno dopo con l’uscita del Papa da questo quartiere c’era una folla immensa che lo accompagnava: qualcosa di unico e indimenticabile».

In cammino verso la pace

Da quel primo dicembre di sette anni fa sono cambiate molte cose, miracoli non ce ne sono stati, ma tra alti e bassi il lento cammino verso la svolta pacifica del conflitto si è messo in moto. «Dal 2015 al 2019 i ribelli controllavano l’80% del territorio; il resto era sotto il controllo del Governo. Era una situazione insostenibile. Con la riconquista di fine 2020, le cose sono cambiate: ora è lo Stato che controlla l’80% del territorio e i ribelli sono stati confinati nelle foreste, lontano dalle città che oggi sono più sicure: le scuole sono riprese e i bambini possono andarci senza sentire gli spari nell’aria, i malati ricevono cure e medicine, il commercio torna a circolare e io non posso che ringraziare il buon Dio e coloro che hanno riportato la pace in Centrafrica».

I «Tre Santi»

Si è trattato di un cammino lungo e articolato quello che ha portato alla riappacificazione del Paese: un cammino segnato da alti e bassi, da ricadute dolorose e da gesti simbolici e plateali che ne hanno accelerato il processo, sostenuto da gesti concreti e dall’intuizione di coinvolgere le religioni attingendo alla base del patrimonio di ciascuna.

Mons. Dieudonné, che nel frattempo ha ricevuto la porpora, si incontra con l’imam musulmano a capo dei fedeli islamici e il pastore evangelico: tre personaggi dalle storie diverse che non si conoscevano neppure bene, ma che hanno sin da subito intuito il pericolo che le loro rispettive religioni potessero venire strumentalizzate nel conflitto. Prende forma l’idea di creare una piattaforma comune: «All’inizio non abbiamo fatto altro che ritrovarci tra musulmani, protestanti e cattolici. Quando poi c’è stata la crisi e abbiamo visto i nostri fratelli e le nostre sorelle morire, ci siamo detti: lasciamo da parte i nostri dogmi e ciò che ci divide. E abbiamo deciso di creare una «piattaforma», un luogo ricco, edificante che ci permettesse di comprendere la pace, il perdono, la riconciliazione, il rispetto, la dignità dell’uomo. Tutte le volte che ci siamo ritrovati davanti a delle difficoltà ci siamo chiesti cosa ci dicevano il Corano e la Bibbia e così, di volta in volta, siamo stati capaci di dire ai nostri fedeli che quello che stavano facendo non aveva radici evangeliche, e non era presente nel Corano».

Con questo atteggiamento, i «tre santi», come ben presto sono stati ribattezzati dalla gente, hanno impedito che le religioni divenissero parti in causa, facendosi garanti del contenuto delle Sante Scritture e delegittimando di fatto il fanatismo religioso. Nella gente ha iniziato a prevalere l’ascolto e le parole del Corano e della Bibbia sono divenute parole guida a cui attingere.

«Le nostre sono religioni monoteiste, basate sulla Parola, ed è per questo che dobbiamo lasciare che sia la Parola ad illuminarci e a guidarci. Abbiamo così compreso che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che è importante collaborare, portarci stima reciproca e cercare come uscirne tutti insieme da fratelli».

Una strategia pacifista fatta di dialogo, studio, amicizia, confronto, dedizione e una buona dose di coraggio. Nel libro il cardinale ripercorre le diverse situazione in cui ha temuto per la propria incolumità. Ma cosa pensa un uomo di pace come lui del conflitto che oggi vede coinvolte la Russia e l’Ucraina?

«Molti dicono: occorre fornire armi agli ucraini, ma vorrei sentire persone (come fa Papa Francesco) che si alzano per dire: «Noi vogliamo la pace». La soluzione di questa guerra non sarà militare. Noi ne abbiamo fatto esperienza. Per aiutare i fratelli e le sorelle che sono presi in questo ingranaggio di violenza e odio non dobbiamo armarli e incoraggiarli ad uccidersi a vicenda, ma dobbiamo dire loro in che modo ritornare alla casella di partenza dove la fraternità è primordiale. Ve lo dico perché l’ho vissuto. Certo, la situazione è complessa: dall’una e dall’altra parte ci sono delle responsabilità e da entrambe le parti ci sono sforzi da compiere. Ma se ci si avvicina si può riconoscere nell’altro l’uomo che è, con una testa, delle braccia, un cuore che può amare, che può cambiare, che può convertirsi. È da qui che posso iniziare il mio percorso di pace. E prego perché tutti, non solo nei vertici, ma anche nel popolo nasca il desiderio di andare oltre, di superare l’odio e il senso di vendetta che ci tiene prigionieri, che ci impedisce di guardare l’altro. Ci serve uno sguardo di vita perché il nostro Dio è un Dio della vita!»

Corinne Zaugg e Silvia Guggiari

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5 Luglio 2022 | 10:57
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