Mons. Alain de Raemy
Ticino e Grigionitaliano

Dalla pedofilia alle chiese vuote: Mons. De Raemy a tutto campo

Un dialogo a largo raggio, aperto sulla Chiesa tutta e sul mondo. Dalle guerre alle crisi che scuotono la cattolicità, dalle minacce di scismi – tradizionalisti o aperturisti che siano – alla fede come incontro, dalle chiese vuote alla pedofilia, ai seminari da riformare. Dai movimenti, nei quali papa Benedetto vide il «nuovo monachesimo», ai loro rapporti con le parrocchie. Per finire con un ritratto del ticinese, assemblaggio di latinità e rigore svizzero tedesco.

di Claudio Mésoniat / ilfederalista.ch

Nelle scorse settimane la nostra stampa – «Regione» e «Corriere» – si è mostrata preoccupata e allarmata per il malcontento che serpeggerebbe tra il clero locale. Il disagio nasce, ed è comprensibile, dal protrarsi della situazione provvisoria al vertice della diocesi, dove il vescovo Alain de Raemy rimane, dopo un anno e mezzo dalla sua nomina, Amministratore apostolico (da ottobre 2023 «senza scadenza determinata»), non potendo dunque godere delle piene facoltà di un vescovo diocesano.

Non è di questo tema – arato e lumeggiato in tutte le direzioni – che vogliamo oggi parlare con lui, e neppure dei disagi evidenziati dalle dichiarazioni anonime pubblicate da laRegione il 16 febbraio («La Diocesi è «esausta» e il clero si sente perso e solo»), tanto più dopo aver appurato che l’originaria lettera di lamentele, poi amplificata dai dolenti commenti della stampa, era giunta a destinazione (ovvero alla Nunziatura di Berna e alla Congregazione di Roma) del tutto anonima, sia pure con l’autocertificazione di essere condivisa «da una cinquantina di sacerdoti e laici vicini alla diocesi». È buona regola giornalistica non ricamare sulle denunce anonime.

Monsignor de Raemy, il 2024 è incominciato caricandosi sulle spalle le guerre ereditate dal 2023, oltre una sessantina – ricorda sempre papa Francesco–, in particolare quella senza pietà che sta insanguinando la Terra Santa. Come guardare a questo conflitto terribile, come parlarne senza ridursi a schieramenti preconcetti, soprattutto come non soccombere all’apparente vittoria del male? Qual è in particolare il compito della piccola minoranza cristiana che vive in mezzo a questa tempesta di odio tra due popoli ai quali noi cristiani ci sentiamo profondamente legati?

«Non c’è compito più importante di quello cristiano, perché di per sé rende Cristo presente, come presente lo è stato nella sua terra natale.

Noi cristiani riceviamo da Cristo la straordinaria vocazione alla misericordia. La fede ci insegna che l’altro è amato da Dio tanto quanto me, senza alcuna previa condizione o limitazione. Cristo è morto e risorto per tutti. Il cristiano non può fare della propria appartenenza culturale o politica la misura del suo rapporto con gli altri, la condizione di una sua vicinanza o meno. La Quaresima che stiamo vivendo tutti serve anche a purificare i nostri giudizi, i nostri modi, i nostri legami, le nostre eredità.

Penso che il cardinale Pizzaballa stia intensamente lavorando in questo senso con le sue comunità. I cristiani in Terra Santa non sono mono-culturali. Per loro come per noi i legami di famiglia, di etnia o di lingua e cultura non possono diventare dei fattori che ci spostano al di fuori del Vangelo. Noi cristiani crediamo nella riconciliazione proprio perché supera le nostre umane capacità e ci butta nel cuore di Dio».

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Mons. Alain de Raemy | © Pierre Pistoletti
12 Marzo 2024 | 11:33
Tempo di lettura: ca. 2 min.
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