Internazionale

Il cardinale Bo: «Il federalismo, via per la pace in Birmania»

Il processo di pace in Birmania fa passi avanti e il Paese si avvia verso un sistema federale: «Dopo 50 anni di un governo centralizzato, appannaggio solo del gruppo etnico birmano e di religione buddista, la decentralizzazione rappresenta una buona soluzione che migliorerebbe il Paese», dice il cardinale Charles Maung Bo, in un colloquio con Vatican Insider.

La recente Conferenza di pace (24-29 maggio) ha riunito a Yangon circa 1.400 delegati tra rappresentanti del governo, parlamentari, militari, leader di partiti politici, membri dei gruppi armati, attivisti della società civile, leader religiosi.

L’incontro ha raggiunto un accordo su 37 dei 41 punti in discussione – temi di carattere politico, economico, sociale – che delineano un’Unione fondata su democrazia e federalismo. L’obiettivo finale è raggiungere un accordo di pace definitivo, base per disegnare uno Stato federale. La conferenza è stata un utile momento di dialogo nazionale, che costituisce un ottimo presupposto di partenza, hanno detto i partecipanti. E il cardinale Bo esprime i suoi auspici sul futuro della Birmania.

Come giudica la Conferenza di pace appena conclusa? Quali speranze lascia al Paese?

«Diciamo da tempo che la priorità è la pace con le minoranze etniche. L’accordo raggiunto costituisce un indubbio passo avanti verso un sistema federale che sicuramente migliorerebbe il Paese. La decentralizzazione e una maggiore autonomia regionale sono una soluzione rispettosa della pluralità di anime, etnie e culture che esistono in Birmania. Oggi urge lavorare per una equa distribuzione dei proventi derivanti dallo sfruttamento delle immense risorse naturali presenti nei vari territori. È vero che alcuni gruppi armati non hanno accolto un cessate-il-fuoco ma le prospettive restano incoraggianti. L’importante è non chiudere le porte al dialogo e proseguire in questa road map per la pacificazione nazionale. Siamo tutti chiamati a costruire un Paese armonico e pacifico».

Secondo alcuni osservatore si tratterebbe di un insuccesso…

«Non credo. È importante mantenere il criterio della gradualità ed avere pazienza. Bisogna procedere a piccoli passi: non si può andare frontalmente contro l’esercito (che controlla dicasteri chiave nel governo come Difesa e Interni) o pensare di cambiare la nazione nel giro di una notte. Ricordiamo che usciamo da una dittatura. In Birmania si notano positivi cambiamenti in corso su temi come la trasparenza e l’attenzione alle istanze del popolo. Bisogna essere prudenti e costruire pian piano il bene comune del Paese».

Qual è il ruolo dei leder religiosi in questo frangente?

«Il nostro ruolo è determinante. La nostra è una nazione in cui spiritualità e religione sono ancora fattori molto significativi per la gente. I leader religiosi possono essere agenti di mediazione di pace. Vorrei ricordare che in Birmania ci sono 500mila monaci buddisti e 70mila suore buddiste che costituiscono un vero «esercito di pace», che può influenzare in modo benefico i militari, appartenenti per la maggior parte alla comunità buddista. Anche i leader delle altre comunità religiose (noi abbiamo 2.500 suore e 700 sacerdoti cattolici) possono dare il loro contributo, come abbiamo ribadito in un recente incontro interreligioso».

Tra le minoranze ci sono i musulmani rohingya: cosa pensa della crisi che li riguarda?

«Ho visitato lo stato di Rakhine e attualmente la situazione sembra calma: certo esistono restrizioni e ci sono degli sfollati interni. La questione che li riguarda ha radici antiche ed è piuttosto complessa: il governo ha il suo bel da fare per affrontarla. Anche Aung San Suu Kyi è stata criticata: la ministra ha detto che bisogna approfondire la vicenda, dato che molti rohingya sono giunti dal Bangladesh anche di recente. Non ha negato che ci sia violenza o che ci siano problemi, ma forse parlare di pulizia etnica è un’espressione troppo forte».

Lei è favorevole a una inchiesta e una missione Onu?

«Siamo favorevoli ad approfondire la questione, anche con il contributo dell’Onu. Va notato che, secondo l’attuale Costituzione, Aung San Suu Kyi non ha un potere diretto su una vicenda come questa, appannaggio del Ministero degli interni. Certo, chiediamo a tutto il governo di agire secondo principi che rispettino la dignità e i diritti fondamentali di ogni uomo».

La Birmania ha stabilito rapporti diplomatici con la Santa Sede: cosa significa per voi?

«Siamo molto felici per questa evoluzione, che abbiamo caldeggiato. Continueremo a tenere buone relazioni col governo, lavorando insieme e per costruire una nazione dove ogni uomo, donna e bambino, di ogni razza e religione, sia riconosciuto come concittadino e nostro fratello in umanità. Con questo spirito, la Chiesa bimana (500mila battezzati, circa l’1% della popolazione), ha dichiarato il 2017 l’»Anno della Pace» e darà il suo contributo con la preghiera, con la sensibilizzazione delle coscienze, con l’impegno sociale soprattutto nel campo dell’istruzione e della sanità. In un parola: annunciando e vivendo il Vangelo».

(Vatican Insider)

8 Giugno 2017 | 07:45
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