Papa Wojtyla - San Giovanni Paolo II.
Ticino e Grigionitaliano

A 25 anni dall’enciclica «Ut unum sint» di Wojtyla

Due date nella storia della Chiesa: 21.11.1964, Paolo VI promulga il decreto Unitatis redintegratio sull’ecumenismo, approvato da 2137 vescovi riuniti nel concilio Vaticano II. 25.05.1995, Giovanni Paolo II pubblica l’enciclica Ut unum sint. I due documenti segnano il percorso della Chiesa sulla strada verso l’unità di tutti i credenti in Cristo. Molti non hanno conosciuto, molti hanno dimenticato quale era la situazione delle Chiese cristiane 60 anni fa: i cristiani divisi non si riconoscevano, si condannavano a vicenda. Gli altri erano nell’errore, con loro non si pregava, non si trattava. Così i credenti nel vangelo erano scandalo, e dunque ostacolo per i non battezzati. La situazione appare schematica ed anche troppo semplificata. È necessario sfumare, però la realtà era quella. Per la Chiesa cattolica, a partire dalla metà del XX secolo, l’impegno ecumenico è stato sentito e vissuto come necessario. Da allora è stata come una primavera: incontrarsi, conoscersi e scoprire i valori cristiani presenti vissuti e testimoniati dagli altri; pregare assieme; agire assieme è stata una grande e forte esperienza. Negli ultimi decenni, forse anche in rapporto a mutate condizioni sociali, l’entusiasmo ecumenico si è come raffreddato, se non spento. L’unità sembra tornata lontana, appare quasi impossibile. L’anniversario dell’enciclica di San Giovanni Paolo II è l’occasione per rinnovare la riflessione, l’impegno necessario per rimettersi decisamente sulla strada dell’unità. Alla fine sarà soltanto opera di Dio, ma i credenti devono porsi nelle condizioni per cui può realizzarsi la preghiera di Gesù al Padre: che tutti siano una cosa sola (ut unum sint); una preghiera che è anche comando per i discepoli («perché il mondo creda»). Da Giovanni XXIII che ha convocato il concilio a Francesco, tutti i papi hanno ripetuto che quello ecumenico è un obbligo per tutta la Chiesa, pastori e fedeli. Rileggere la lettera di Giovanni Paolo II significa riscoprire uno scritto importante, che ancora è pienamente attuale. Ci sono nel testo particolari che possono sfuggire, ma che sono fortemente significativi: il papa, contrariamente all’uso di allora per un documento di questo tipo, si esprime spesso al singolare, alla prima persona, marcando in questo modo il suo sentire, l’esperienza ecumenica come realtà vissuta nel concreto, l’impegno ecumenico come dimensione personale. Ricorda gli eventi vissuti in prima persona: gli incontri con i patriarchi delle Chiese orientali, ma anche quelli con battezzati nelle comunità della Riforma, e riconosce ai loro pastori i titoli di episcopi: anche con questi, Giovanni Paolo II ha pregato (evitando ogni segno equivoco). Il testo della lettera, come pure i gesti, differenziano l’attenzione rivolta alle Chiese ortodosse e orientali, quasi privilegiandole (perché i dati condivisi sono importanti), ma non tralascia lo sguardo attento e benevolo per i valori presenti nelle comunità della Riforma, i cui membri non sono meno cristiani degli altri, in virtù del battesimo e della fede fondamentale in Cristo (autentica, nonostante divisioni storiche e dottrinali). Anche a queste comunità, Giovanni Paolo II riconosce il titolo di Chiese. Infine, tra tanti temi belli, il Papa accenna al ministero del vescovo di Roma, che appare ostacolo ai non cattolici. Egli non può rinunciare a questo ministero, ma chiede l’aiuto a tutti perché l’esercizio del primato non sia ostacolo, ma diventi sempre più servizio e segno di unità.

Azzolino Chiappini, già rettore della Facoltà di teologia di Lugano

Leggi anche il commento di Gino Driussi.

Papa Wojtyla – San Giovanni Paolo II.
14 Giugno 2020 | 07:00
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