Laura Quadri

«Yossel Rakover si rivolge a Dio». La fede oltre il dolore

Non solo un «adattamento» ma molto di più: una storia che vive o, meglio, rivive – dopo aver attraversato, di traduzione in traduzione, il mondo – al di là della fine tragica del suo autore, leggendariamente identificato nell’ebreo Yossel Rakover; un inno alla vita, un grido che si fa poesia di speranza, una dichiarazione, infine, di fede. Sotto queste vesti si presenta l’ultima pièce di Roberto Albin. Classe 1969, nato a Napoli ma di origini svizzere, Albin è membro della Confraternita luganese di S. Carlo e proprio nell’omonima chiesa, in un tardo pomeriggio, ci invita ad assistere allo spettacolo –  riprodotto con successo anche al Teatro Foce –  »Yossel Rakover si rivolge a Dio», libero adattamento del racconto di Zvi Kolitz, uscito proprio con questo titolo nella versione italiana, nel 1999 per Adelphi e a sua volta ripresa di un celebre testo, un «testamento», che tale Yossel, poco prima di morire nel ghetto di Varsavia, avrebbe affidato a una bottiglia, mettendo su carta i suoi ultimi pensieri, il suo dolore ma anche il suo caparbio credere, nonostante tutto, in Dio.

«Io, Yossel, figlio di David Rakover, scrivo queste righe mentre le case del ghetto di Varsavia sono in fiamme, e quella dove mi trovo è ancora una che non brucia». Da questo momento in poi prende vita una riflessione che è, anzitutto, un modo per interrogarsi sulle condizioni dell’umanità, nel tragico contesto della guerra, di tutte le guerre. Con determinazione e coraggio il protagonista del racconto sottolinea le condizioni contraddittorie vissute dalle vittime – vivere la morte come una «liberazione» e la vita, oramai, come «punizione» – al contempo quasi certi di poter affermare che la spietatezza di un solo aguzzino non sia che, purtroppo, il riflesso di una società, già da molto tempo, incrudelita. Ombre e luci ormai non si alternano più, ma si combattono: il sole, fonte stessa della vita, non appare che un «alleato» del nemico, capace solo di rivelare le tracce delle vittime in fuga ai propri esecutori. È il volto «amaro» del conflitto: rendere, su tutto, la bellezza della vita stessa, invisa. Non poter più gustare della piacevolezza del mondo e della natura, ma essere costretti a desiderare, come unico scampo, l’invisibilità. «Il giorno è terrore, la notte un sollevo. Milioni di persone nel vasto mondo non sanno affatto, non hanno alcuna idea di quanta oscurità e sventura ci abbia portato il sole, trasformato in uno strumento nelle mani di scellerati che se ne sono serviti come un riflettore per scoprire le tracce dei fuggiaschi».

Ma proprio la questione di Dio, nel mezzo di una riflessione sull’uomo che pare irredento, si ripropone continua, martellante nella mente di Yossel e all’ascolto e all’attenzione degli spettatori. Dio come colui che Yossel ha sempre sentito vicino, nei momenti di prosperità, ma a cui ora sente di dover chiedere: aiuto, risposte, salvezza. Fino al pronunciamento che fu anche di Giobbe, in cui Yossel si riconosce esplicitamente, per aver perso, solo pochi giorni prima, moglie e figli inseguiti dai nazisti: «Che cosa ancora deve accadere affinché Tu mostri il tuo volto al mondo?». Una sola e unica risposta si profila allora come possibile nella mente dell’uomo sofferente: l’idea – la sola ancora davvero accettabile – che il volto di Dio, di mezzo a tanto soffrire, si sia occultato. Deus absconditus, il Dio tante volte ricercato e apparentemente mai trovato anche dei mistici, ma qui, soprattutto, un Dio nuovamente «sconfitto»: sconfitto dalla severità del male compiuto dall’uomo da lui creato, sconfitto dalle stesse ferite imposte alla sacralità della vita – «dire che meritiamo i colpi che abbiamo ricevuto è una bestemmia, una profanazione del nome ineffabile di Dio» – sconfitto dall’idea di male che ha ormai avvinto animo e cuore dell’uomo. Novello Giobbe, non rimane così a Yossel che una consapevolezza pronunciata a mezza voce, una certezza sussurrata, che se non fu del Dio dell’Antico Testamento, sarebbe stata tuttavia quella di Cristo: «Non vi è cosa più intatta che un cuore spezzato».

Tragicità, tensione, affetto che continua a tendere il cuore dell’uomo verso l’alto, sebbene tutto lo attiri verso il basso. Un insieme di duri sentimenti, espressi a parole ma anche tramutati in musica, dai brani accuratamente scelti per sottolineare ogni svolta del pensiero di Yossel: dal tragico suono del violino, all’inizio, nei brani trattai dal concerto per violoncello dello spagnolo Cristobal Hallfter, alla «Ciaccona», brano musicale attribuito dagli storici al compositore secentesco Tomaso Antonio Vitali, fino agli estratti dal concerto, sempre per violino, del compositore contemporaneo Michel van der Aa, per poi ritornare, con l’armonica a bocca, a compositori del passato, attingendo alla ricchezza della musica barocca, come gli italiani Tomaso Albinoni e Arcangelo Corelli, i cui brani vengono portati sulla scena da Albin con rara maestria. A introdurli, significativamente, la «Marcia dei vitelli», cantata a cappella, ovvero la versione italiana della Kälbermarsch, testo parodico scritto da Bertolt Brecht nel 1944 a partire dalla musica dell’inno nazista, mentre – lungo tutto lo spettacolo –  sullo sfondo scorrono, riprodotte, le immagini catturate da alcuni studenti del Centro di produzione «Jacopo Sannazzaro» di Napoli, guidati dal padre di Albin, il professor Massimo Albin, proprio in Polonia, durante un’escursione, sui luoghi più colpiti dalla guerra.

Vicenda moderna, il grido di Yossel è quello dell’uomo perseguitato e confrontato con il dolore più incomprensibile. Nel confronto silenzioso con la vicenda di Giobbe, la sua riflessione si immerge nel senso di un’assenza, di una privazione – privazione della vita e del divino –  per risolversi, infine, contro ogni aspettativa, nella capacità di un ultimo inaspettato slancio, che ridà allo spirito sconfitto linfa vitale. È la dichiarazione ultima di una fede incorrotta; l’assumere, nella prospettiva stessa di Giobbe, l’unica veste ancora vincente: dirsi convinti che oltre ogni male, di qualsiasi tipo, credere valga ancora la pena. Credere, quando niente rende più umanamente credibile che si possa sperare in una protezione; credere, non come forma di ostinazione ma di tenacia; credere come desiderio ultimo del cuore umano, animato da una scintilla e un’impronta divina insostituibile che rendono ogni singolo grido una lancia spezzata in favore della vita. Per un finale che può certo non commuovere, ripreso dal testo originale, ma ripresentato, lungo l’ora di spettacolo, in maniera inedita, con tocco artistico e sensibilità profonda, per un applauso che non può mancare: «Credo nel sole anche quando non splende; credo nell’amore anche quando non lo sento; credo in Dio anche quando tace. Punto». Il ringraziamento va anche a Albin, eccellente interprete e profondamente immedesimatosi con Yossel, per averci permesso di vedere lo spettacolo privatamente, in attesa – un’attesa gradita – che possa presto venire ripresentato al pubblico, facendogli dono del regalo più bello: la dimostrazione che forza di ricominciare interiormente e speranza sono le ultime e più valide parole e i più validi atteggiamenti di fronte a qualsiasi sconfitta.

In occasione della Giornata della memoria, lo spettacolo di Roberto Albin verrà messo in scena sabato 27 gennaio alle 19 al teatro Paravento di Locarno.

27 Gennaio 2024 | 08:14
Tempo di lettura: ca. 4 min.
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