Ernesto Borghi

Verso il sinodo dei vescovi sulla famiglia: dalla Bibbia alla vita di oggi

di Ernesto Borghi

Inizia oggi la pubblicazione, a cadenza settimanale, di un breve ciclo di quattro interventi in preparazione al Sinodo dei vescovi cattolici (4-25 ottobre 2015) sui temi di ordine familiare, che concernono fortemente la popolazione dei credenti cristiano-cattolici e, in varia misura, anche coloro che cristiano-cattolici non sono.

«È tanto bello il proverbio

«Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei!»,

ma non basta, proviamo a dire:

«Dimmi chi escludi e ti dirò chi sei!»»[1].

«Bibbia, famiglia e società[2]«: questi sono tre termini che suggeriscono varie relazioni e piste di lettura culturale, in forme molteplici e talvolta anche alternative tra loro. Alternative perché nella storia sociale del mondo i valori etici ed estetici propri delle Scritture ebraiche e cristiane spesso hanno innervato in misura inadeguata le relazioni proprie delle convivenze familiari e sociali. D’altra parte, i testi biblici spesso non sono stati, anzitutto nelle istituzioni religiose cristiane, letti in modo adeguato alla cultura e alla vita comuni.

La Bibbia, dal libro della Genesi a quello dell’Apocalisse, appare una delle radici imprescindibili della cultura euro-mediterranea ed euro-occidentale. Letture delle Scritture ebraiche e cristiane, variamente legate alle diverse epoche in cui sono state proposte, hanno influenzato indubbiamente le differenti modalità delle relazioni interpersonali e sociali, causando conseguenze più o meno umanizzanti.

Capire quale influsso costruttivo possano recare oggi le letture bibliche alla convivenza familiare e sociale è una prospettiva di grande importanza formativa. Per chi? Per chiunque sia interessato, anzitutto in Occidente, ad un umanesimo del cuore e della mente, dunque della vita, davvero preoccupato della qualità dell’esistenza di tutti.

        In vista dell’imminente inizio del Sinodo ordinario dei vescovi cattolici intitolato «La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa nel mondo contemporaneo» propongo una serie di riflessioni, dalla Bibbia alla cultura di oggi, che possano servire a disegnare i connotati fondamentali delle relazioni umane per la vita odierna. Iniziamo con due celeberrimi passi tratti dal libro della Genesi, esistenzialmente importanti.

 

1,26-31

«[26] E Dio disse: «Facciamo un essere umano secondo la nostra figura, a nostra immagine, ed eserciti la sua autorità responsabile e promozionale sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». [27] Dio creò l’essere umano secondo la sua figura; secondo la figura di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. [28] Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; ponetela sotto la vostra autorità responsabile e promozionale ed esercitatela sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» [29] Poi Dio disse: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. [30] A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne. [31] Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto bella e molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno»[3].

Quale è il senso globale di questo brano? L’essere umano non è creato, come in vari altri contesti religiosi mitologici, per servire Dio, egli è creato come vis-à-vis di Dio nella sua creazione, come vis-à-vis di Dio in riferimento a creature viventi che si trovano nel mare, sulla terra e in cielo.

Allora il centro dell’attenzione del discorso è l’azione creatrice ad immagine del Creatore come asse portante della relazione tra il divino e l’umano. In altre parole, l’essere umano «è immagine di Dio in quanto agisce e si comporta in maniera responsabile verso il suo ambiente vitale e verso gli esseri viventi presenti in questo ambiente, non perché agisce e si comporta in maniera responsabile verso Dio»[4].

Questa dinamica attiva giunge al suo pieno compimento nel v. 27c quando si evidenzia il suo punto di arrivo culminante: la duplicità sessuale nella creazione umana. L’uomo è immagine di Dio con tutta la sua umanità. Uomo e donna sono immagine a pari titolo e insieme[5]. Insomma l’uomo e la donna sono immagine di Dio soprattutto per la loro capacità di relazione.

La base dell’essere umani è, quindi,

  • il rapporto con Dio in termini di riconducibilità alla fisionomia divina;
  • la sovranità costruttiva e rispettosa sul Creato, a cominciare dagli altri esseri viventi;
  • la distinzione maschile/femminile.

Si tratta di tre aspetti inscindibili tra loro e prioritari rispetto a qualsiasi altra caratteristica ed indicazione. «Certamente non si tratta di un ermafrodita, ma di un Uomo che nella sua natura è concretamente caratterizzato come maschio e femmina. Secondo il racconto sacerdotale della creazione non possono esserci una natura e una storia dell’Uomo che non siano determinate dall’esistenza dell’uomo e della donna.

Riassumendo, si può dire che in questo racconto del cap. 1 la si evidenzia un Dio trascendente, creatore, che precede il mondo, è soddisfatto di quanto ha realizzato. Egli prospetta un disegno di creazione che arriva al suo culmine nel rendere presente un’umanità fatta secondo la fisionomia divina stessa. Non vi sono sovrapposizioni ed improponibili congruenze con lui e la diversificazione e correlazione tra uomo e donna sono parte integrante di tale raffronto dinamico e creativo nei confronti dell’identità divina.

«L’uomo è la sola creatura che può stare davanti a Dio come una persona, capace di dialogo e di responsabilità: può ricevere e può rispondere, può condividere l’ammirazione di Dio per la sua creazione e può, come Dio, prenderne cura. Con la comparsa dell’uomo la creazione cessa di essere semplicemente un dato, una realtà che semplicemente esiste, ma si trasforma in dono e compito. L’uomo è il senso vero cui tendeva l’intera azione creatrice di Dio. È solo dopo aver creato l’uomo che Dio può regalare (e affidare) la sua creazione a qualcuno»[6].

Il contesto intermedio

I vv. 4b-17 del cap. 2 hanno sullo sfondo la condizione di vita delle popolazioni palestinesi, da tempo stanziali, le quali vivevano come esigenze impellenti il bisogno di acqua e la necessità di lavoro, il tutto al fine di sviluppare le coltivazioni dei campi (cfr. v. 5).

La creazione dell’essere umano si avvale della polvere della terra vivificata da Dio, quindi materia e soffio vitale[7]. L’esito dell’azione creatrice è un individuo che, nell’unità di esteriorità ed interiorità, materialità e vitalità, è costituzionalmente limitato[8], ma distinto dagli altri esseri creati[9] anche e soprattutto perché è desiderio in cerca di soddisfazione e compimento[10].

La differenza essenziale tra questo genere di vivente e gli animali si coglie già prima della creazione della donna: è il fatto di essere l’interlocutore di Dio, capace di ricevere un ordine divino (cfr. 2,15). Tale condizione non è propria degli altri viventi animati, i quali sono stati, a loro volta, foggiati a partire dalla terra (cfr. 2,19). E il comando appena menzionato è successivo alla creazione di quello che viene indicato subito dopo come lo spazio vitale per l’essere umano: il giardino di Eden e le acque capaci di irrigare le zone nord e centro-africane e mediorientali (cfr. vv. 8-14).

Ivi l’uomo viene collocato con due precisi scopi tali da fargli finalizzare il suo «essere vivente»: coltivare (= ›avad) e custodire (= shamar) il giardino.

«La parola usata per coltivare corrisponde al latino colere… Tutta l’attività umana è compresa come «cultura» (colere) non si fa differenza tra il lavoro fisico e il lavoro intellettuale, e quest’ultimo non viene stimato di più del primo. La coppia di parole «coltivare e custodire» vuol dire che una coltivazione senza protezione non corrisponde all’incarico ricevuto dal creatore. Lo sfruttamento indiscriminato della terra e delle sue forze significa trascurare questo incarico, e deve alla fine ripercuotersi negativamente sull’uomo»[11].

Una coltivazione che è materiale e spirituale e in sé significa anche culto religioso: la radice ›avad esprime anche questo valore semantico. Ciò significa che parlare di coltivazione della terra e di culto a Dio sono aspetti della stessa attenzione globale di chi è creato, ad un tempo, verso Creatore e Creazione.

Questo discorso complessivamente culturale è rafforzato se si considera il valore complessivo del verbo custodire: infatti shamar è anche il verbo utilizzato nel Primo Testamento per indicare la fedeltà dell’essere umano che osserva i comandamenti di Dio e la fedeltà di Dio che custodisce il suo popolo (Sal 121,4). Proprio custodire esprime l’attenzione che deve accompagnare l’attività dell’individuo, come quando si ha tra le mani un bene prezioso che non appartiene a se stessi[12].

Coltivazione, cura e servizio da un lato; custodia, osservanza e controllo dall’altro: ecco le due costellazioni di significati a cui sono riconducibili i verbi in questione. Queste azioni, che sono vere e proprie condizioni esistenziali, mobilitano tutto l’essere vivente dell’individuo e delineano il senso attivo e dinamico della relazione costitutiva della vita umana. Essa è intrinsecamente limitata rispetto alla perenne vitalità divina, ma è posta nella condizione di un esistere oltremodo positivo. Infatti anche prima della caduta l’essere umano era atteso all’opera; l’esistenza nel paradiso non implicava una vita di comodo disimpegno.

Comunque il racconto biblico non insinua che Dio scarichi le sue responsabilità come fardello sulla creatura umana: il lavoro è intrinseco alla vita umana nel senso di una cura dell’ordine creato[13] e cambia regime acquisendo i caratteri di sofferenza e fatica, quando l’individuo perde di vista il compito originario affidatogli (cfr. Gen 3,17-19).

E per quanto riguarda il v. 17, che appare chiaramente un aggancio testuale al racconto di Gen 3, mi sembra legittimo proporre almeno questo problema: la benevolenza divina si estende fino al potere dato all’individuo di nutrirsi di tutti gli alberi del giardino (Gen 2,16).

Ma si può vedere nel divieto «alimentare» di Gen 2,17 un segno di questa stessa benevolenza divina? Di fronte al comando di Dio l’essere umano può accettarlo e testimoniare così la sua fiducia in colui che gliel’ha dato. Può, invece, rifiutarlo e mettere in dubbio la benevolenza del Creatore nei suoi confronti. Così fa l’ebreo ogni volta quando accetta o rifiuta, nella quotidianità della sua vita, quanto gli prescrive la legge mosaica.

E l’esercizio della libertà da parte dell’essere umano è sollecitata da una proibizione che risulta anche un’autolimitazione della libertà divina: Dio si rimette, si misura, si confronta con la libertà della scelta umana.

 

Genesi 2,18-25

            Il secondo racconto relativo alla creazione degli esseri umani presenta un’interessante scansione interna piuttosto evidente: vv. 18-20; 21-25. Leggiamone la prima parte.

«[18] Poi il Signore Dio disse: «Non è cosa bella e buona che l’essere umano sia solo: gli voglio fare un partner capace di aiutarlo e di fronteggiarlo». [19] Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’essere umano, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’essere umano avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. [20] E l’essere umano impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’essere umano non trovò un partner capace di aiutarlo e di fronteggiarlo».

            La solitudine non è una situazione positiva né sotto il profilo etico né sotto quello estetico. Il Creatore ha messo l’essere umano nella condizione di esprimere la propria identità di vivente nel dinamico e armonico rapporto con il resto del creato. Si accorge, però, che le relazioni sinora offerte alla creatura umana non sono all’altezza della situazione.

Allora manifesta un desiderio, una volontà intensa[14]: realizzare un altro essere che sia, come dice il testo ebraico, ›ezèr keneghdò. I due vocaboli appena citati presentano due valori semantici certamente ricchi.

Il primo – il sostantivo ›ezèr – offre una gamma di valori che sono così riassumibili: aiuto, sostegno, favore, salvezza.

Il secondo – néghed – è un avverbio-preposizione il cui significato è sostanzialmente davanti, di fronte, di rimpetto. Da quest’ultima parola è derivato, sempre a partire dalla radice ngd, il verbo corrispondente, il quale, in particolare nelle forme causative attive, vuol dire annunciare, comunicare.

 Queste informazioni di carattere lessicale e morfologico mostrano quali siano le due caratteristiche fondamentali che deve avere la prossima realizzazione divina che si porrà in relazione con l’umano:

  • la complementarietà direi psico-fisica e in rapporto di positivo, indispensabile sostegno[15];
  • la capacità di interagire allo stesso livello, senza scadimenti, arretramenti o allontanamenti di sorta, secondo una prospettiva in cui la logica dell’incontro anche competitivo e dialettico sia ben presente: «non si tratta di un essere che soltanto (magari limitatamente) gli somiglia, ma di un essere capace di «reggerlo» e di «tenergli testa»»[16]. E le fonti rabbiniche hanno ben interpretato la duplicità semantica del termine néghed: «se l’uomo la (= la donna) merita, ella è un aiuto, diversamente ella è contro di lui»[17]. E tale interpretazione è così fondata: «Perché la Toràh descrive la moglie come «opposta» all’uomo? Questo termine indica che se ne sarà degno, la moglie sarà d’aiuto all’uomo; in caso contrario, diventerà una sua nemica»[18].

Tale obiettivo di Dio viene apparentemente abbandonato (cfr. v. 19): la creazione degli animali terrestri e volatili occupa l’agire divino. Il Creatore entra in relazione con l’umano sinora creato per suscitarne una cooperazione in certo modo decisiva. Nel compito di coltivazione e custodia è compresa anche la denominazione dei viventi appena plasmati. Il senso della realtà – dare il nome per la Bibbia significa far esistere ciò che si denomina – dipende dalle scelte dell’essere umano, che non si sottrae ad esse.

L’essere umano opera con decisa immediatezza[19]. I nomi separano le specie tra loro e il fatto di denominarle le distingue tutte dall’essere umano. In questo suo procedere di sostanziale importanza, registra la lacunosità del plasmare divino (v. 20) e ha, implicitamente, una consapevolezza di sé maggiore rispetto a quella di prima: ha distinto gli animali da sé, dando loro pienezza di vita attraverso il nome.

Quello che, sinora, il Creatore ha realizzato, dalla terra e con la terra, ha vita, ma è chiaramente inadeguato rispetto al progetto enunciato. Solo così, infatti, si può spiegare l’intervento sull’essere umano, volto a togliergli la consapevolezza di quello che sta per verificarsi[20]. Il Signore è «padrone» di quello che ha realizzato e ha parlato della sua volontà di porre in essere un’entità che sia in stretto rapporto con chi già esiste.

«[21] Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’essere umano, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. [22] Il Signore Dio realizzò con la costola, che aveva tolta all’essere umano, una donna e la condusse all’essere umano. [23] Allora l’essere umano disse: «Questa volta ella è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa! Ella sarà chiamata donna perché dal maschio ella è stata tolta». [24] Per questo un maschio lascerà suo padre e sua madre e si unirà strettamente alla sua donna e i due verranno ad essere una carne sola[21]. [25] Ora tutti e due erano nudi, l’essere umano e la sua donna, ma non ne provavano vergogna».

L’immagine utilizzata dall’autore è tanto concreta quanto suggestiva. L’operazione di carattere «chirurgico» che viene compiuta ha lo scopo di attuare tale relazione sin dalla struttura portante dei due. La costola[22] tratta dal corpo dell’umano reso dormiente diviene il nucleo della nuova creatura che il Signore Dio letteralmente costruisce. Il processo che viene posto in atto è, come risulta chiaro, del tutto diverso da quello di qualsiasi altro vivente non umano[23]. Portare il nuovo individuo già denominato donna (= isshà) all’essere umano significa sancire il completamento del progetto esplicitato al v. 18. Sin qui agisce Dio.

Da qui in poi spetta all’essere umano creato per primo continuare, in coerenza con il disegno realizzato dal Creatore.

L’esplosione esclamativa delle parole del v. 23 sancisce non la subordinazione della seconda creatura umana alla prima, ma la relazione strutturale originaria tra loro non solo a livello fisico, ma anche sotto il profilo della denominazione[24]. Sono anzitutto parole di tripudio da parte di chi era già stato creato in precedenza. Egli riconosce in chi vede il termine di confronto e di relazione che attendeva.

Da quest’ultimo punto di vista, però, è possibile riscontrare un’ulteriore peculiarità nella creazione della donna: il suo nome non viene assegnato anzitutto dall’essere umano, ma già al momento della sua «costruzione», prima dell’incontro con lui: nel testo, come si è visto, è chiamata isshà[25].

Viceversa colui che sino a quel momento ha il nome che la sua plasmazione gli ha conferito (essere umano), assume proprio ora la sua nuova denominazione: maschio (= ish). Questa connotazione non generica, ma caratterizzata e pregnante, sorge nel momento in cui l’essere umano si confronta con un’alterità che gli sta dinanzi in una prospettiva solidale e dialettica. Il primo umano creato non ha dato il nome al secondo: ne ha riconosciuto la denominazione, ne ha sottolineato l’intensa integrazione a sé, ricevendo ed esplicitando solo a questo punto la propria condizione di maschio.

Infatti il v. 23a sottolinea come il legame tra uomo e donna superi ogni connessione di parentela genitoriale: «carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» è una formula superlativa. Essa fonda questa condizione ed esprime plasticamente l’eguaglianza di statuto creaturale dei due soggetti umani in termini di fragilità, vitalità e solidità strutturali.

La differenziazione tra i sessi, la componente di incoscienza umana rappresentata dal torpore originato da Dio e l’atto verbale successivo, ricco di gioioso stupore, sono le condizioni di riconoscimento dell’umanità. L’uomo si rivela se stesso complementariamente alla donna a partire da ciò che a lui manca.

Il v. 23b evidenzia la proclamazione di due «nascite»:

  • quella di chi prima esisteva solo come collaboratore del Creatore. Egli, assumendo una nuova denominazione, acquista particolare personalità proprio dalla relazione con la partner che è proiettata dal presente al futuro;
  • quella di colei che senza di lui non sarebbe esistita e che dà a lui il completamento decisivo della sua identità.

La realizzazione piena di questo rapporto non dipende più dalle scelte divine, ma dai comportamenti umani (v. 24). Colui che ormai è definito in quanto maschio si assume la responsabilità fondamentale della sua vita, in coerenza con il punto d’arrivo della creazione.

L’autore del testo ha formato una sequenza di tre azioni e condizioni, dal chiaro ritmo ascendente. Tre sono i gradini di questa scala:

  • il distacco definitivo dalla dipendenza dai genitori e, in particolare, dalla priorità del legame con loro;
  • l’adesione a colei che è la sua partner, in termini di strettissima vicinanza, come esprime il verbo utilizzato, dvq[26]. La sessualità di coppia esisge la rinuncia della protezione dei propri genitori[27]. La forza che spinge l’uomo e la donna l’uno verso l’altra li tiene irresistibilmente e vicendevolmente accanto;
  • il diventare, da due soggetti, un unico essere vivente, con tutta la concretezza vitale contenuta nel sostantivo basar, che incarna assai densamente la portata di questa relazione.

Questa successione sottolinea come si tratti di una progressività senza automatismi. Il punto d’arrivo è una piena intimità relazionale che va costruita in modo evidentemente graduale[28]: «l’orizzonte entro il quale il racconto colloca il rapporto uomo-donna non è anzitutto il compito procreativo, ma il dialogo… Ciò che impressiona l’autore non è il miracolo della procreazione, ma la profonda e irresistibile «attrazione» fra l’uomo e la donna, tale da indurli a superare anche i più sacri legami»[29].

Nel contesto di fiducia e collaborazione tra il Signore Dio e gli esseri umani creati coglibile complessivamente a partire dai vv. 18-24, la solarità del legame interumano prospettato è tale che i due non sono destinati a provare alcun disagio per la situazione di totale reciproca nudità in cui si trovano, giacché sono nella condizione di accettarsi per quello che sono senza maschere di sorta (v. 25).

Quest’ultima affermazione pare soprattutto un altro aggancio di carattere allusivo alle conseguenze che i due capostipiti del genere umano subiranno nel cap. 3, a seguito del loro comportamento infedele nei confronti del Creatore[30].

Comunque l’umanità di ognuno è pienamente degna della propria creaturalità divina quando è impegnata nella cura e custodia del reale, cooperando all’estrinsecazione completa della creazione.

Questa condizione è, però, necessaria, non sufficiente. La differenza sessuale in vista dell’intimità relazionale complessiva ne è il completamento indispensabile affinché la bellezza e bontà dell’azione divina sia dispiegata in tutta la sua valenza positiva. Il punto d’arrivo di questa costruzione e creazione di solidarietà è un’intesa tanto vitale quanto stretta. In essa la differenza è nella prospettiva dell’unità. E l’unità è prevedibile e realizzabile soltanto a partire dalla differenza. Tutto questo avviene in un quadro nel quale l’unione fisico-sessuale è implicata ed accentuata all’interno del rapporto interpersonale: l’antropologia biblica sottolinea fortemente l’unità dell’essere umano. La corporeità è la via imprescindibile per la comunione tra gli esseri umani, che si articola in modo culminante tra donna e uomo[31].

 

Genesi 1-2: linee di sintesi

            La lettura dei primi due capitoli di Genesi che abbiamo proposto spinge a fare almeno le seguenti considerazioni conclusive.

  • Anzitutto è apparso chiarissimo il diverso intendimento dei due racconti in risposta a problematiche differenti. La prima narrazione si preoccupa di presentare nell’opera divina creatrice un paradigma per l’essere umano. La seconda è interessata ai problemi esistenziali umani relativi al suo comportamento e al suo destino e dimostra una notevole libertà argomentativa. L’essere umano è pienamente creato solo con l’apparizione della donna per creazione divina[32].

Dio è all’opera, con l’aiuto degli esseri umani per conformare la creazione al suo progetto. Egli pone gli individui al di fuori da qualsiasi trascendentalismo o fuga dall’esercizio della propria libertà così come da ogni illusoria convinzione di poter bastare a se stessi senza rapporti con Dio.

  • La creazione dell’essere umano è autenticamente tale e l’umano è davvero figura ed immagine di Dio, solo

– se è maschio e femmina[33];

– se uomo e donna hanno uguale dignità;

– se il rapporto tra loro è una relazione fondata su un sostegno dialettico, sull’effettiva indipendenza dal proprio passato e sulla fisicità carnale intensa;

– se tale relazione è un processo di progressivo perfezionamento qualitativo secondo i tre aspetti appena menzionati.

  • L’esistenza umana è completamente se stessa se la sua centralità nel creato, determinata da Dio, si snoda nella dinamica cura/coltivazione e nella rispettosa custodia/osservanza del creato stesso in tutte le sue caratteristiche originarie.

Tutto ciò deve avvenire in un contesto di mutualità feconda. Ciò non si esprime soltanto nell’idea che l’essere umano rappresenti davvero Dio, soltanto se si moltiplica. Questa interpretazione «demografica», al di là della fortuna che ha avuto per secoli tra i predicatori e formatori cristiani, non è biblicamente sostenibile. Essa ha pure un tono strumentalizzante davvero intollerabile da un punto di vista tanto biblico generale che cristiano specifico, per quanto riguarda il dare alla vita e il dare la vita.

L’insieme dei due racconti esaminati sino a Gen 2,24 indica chiaramente che la cellula vitale della società deve essere considerata quella costituita da un uomo e da una donna in rapporto globale tra loro, più di quella formata da genitori e figli.

L’umanità formata nell’uomo e nella donna mira a favorire l’armonico sviluppo del creato, alla ricerca non della congruenza tra i partner, ma di un’interazione capace di rendere l’intesa tra loro sempre più stretta. La lettura, attenta e complessiva, dei due racconti rileva, in ultima analisi, non la superiorità, ma l’effettiva «divinità» dei due nella possibilità che essi siano, proprio nella loro relazione, distinzione e duplicità, realizzazioni «secondo la figura» di Dio. Vi sono due modalità originarie per «interpretare» il ruolo di «immagine» divina. Nessuna delle due, se si legge davvero Gen 1,26 – 2,24, è superiore all’altra. Ciascuna, per essere più autenticamente se stessa, può ricevere aiuto, solidale e sinceramente critico, dall’altra.

Nessuna fobia sessuale trova fondamento in questi brani, così come nessuna logica di strumentalizzazione maschilista, nessuna ossessione generativa, nessuna prevaricazione umana sulle altre forme di vita creata. Per sviluppare effettivamente la creazione macrocosmica è indispensabile la crescita in bellezza e bontà della relazione tra uomini e donne. Tutto ciò nella globalità, senza fratture e senza unilateralità, che è evidenziata dall’antropologia sottesa a Gen 1-2.

Le donne e gli uomini che ispirano la loro vita individuale e relazionale a questi racconti sono esseri umani in costante divenire, impegnati a gestire il proprio dinamismo vitale e le relazioni con gli altri in una forma tale da incanalare con senso di responsabilità personale e sociale, le proprie energie verso lo sviluppo complessivo proprio e altrui. E indubbiamente la provocazione più forte che emerge da questi brani del libro della Genesi è probabilmente quella di tendere a vivere a quell’alto livello di relazione interumana e umano-divina che tali narrazioni, radicalmente umanistiche, propongono.

[1] Luigi Di Liegro in A. Gallo, Se non ora, adesso, Chiarelettere, Milano 2011, p. 118.

[2] Per società intendiamo ogni insieme di individui (uomini o animali) uniti da rapporti di varia natura e in cui si instaurano forme di cooperazione, collaborazione, divisione dei compiti, che assicurano la sopravvivenza e la riproduzione dell’insieme stesso e dei suoi membri. Per famiglia desideriamo significare quel gruppo di persone legate da stretti vincoli di sangue, da parentela o da affinità e che normalmente conducono vita comune; in particolare, nucleo costituito da genitori e figli, dunque fondato sull’unione stabile e giuridicamente riconosciuta dei genitori e sul rapporto di figliolanza/fratellanza naturale o adottiva dei figli.

[3] Questa traduzione è opera mia, così come tutte le altre seguenti per le quali non sia data indicazione diversa.

[4] W. Gross, Die Erschaffung, des Menschen als Bild Gottes, in R. Koltermann (ed.), Universum – Mensch – Gott: der Mensch vor den Fragen der Zeit, Verl. Styria, Graz 1997, p. 161.

[5] «Le donne non sono state fatte per gli uomini più di quanto gli uomini siano stati fatti per le donne. La gloria, ancora non messa abbastanza in valore, di Gen 1,27 è che la pienezza della vita e della creatività divina si riflette in un’umanità che è maschio e femmina, implicando una differenza, se non ontologica, originaria. E questa differenza non è dovuta ad un difetto o a ragioni pragmatiche, bensì ad un disegno divino» (J.M. Soskice, Imago Dei e differenza sessuale, in «Concilium» 1 [2006], 59).

[6] Ivi, p. 9. La fonte della sacralità dell’unione eterosessuale «non si trova più in un archetipo mitico, ma deriva dalla parola di Dio. In un certo senso anche l’uomo diventa parola di Dio. L’amore umano è rivelazione divina per l’autore del cantico dei Cantici. La stessa parola di Dio ha imposto contemporaneamente alla sessualità umana la sua regola naturale e l’ideale a cui deve tendere» (F. Manns, Il matrimonio dell’Antico Testamento, in S. Panimolle [ed.], Il matrimonio nella Bibbia, Borla, Roma 2005, p. 25).

[7] «La parola ebraica tradotta con alito, respiro (= neshmah) designa la respirazione che, nell’esperienza quotidiana, è il segno dell’essere umano vivente. Questo alito è un possesso divino e Dio ne è l’origine per l’uomo… Applicata a Dio questa parola implica la potenza, potenza creatrice o potere di giudizio; applicata all’uomo essa esprime il dono di un potere di vita limitato. Comunque in Gen 2,7 il respiro è anzitutto un dono che stabilisce una relazione tra Dio e l’uomo, sebbene esso non ponga l’uomo in una relazione di necessità… Si deve tener conto di talune concezioni relative alla creazione dell’umanità nel Medio-Oriente antico per cogliere le sfumature del testo biblico. In quelle prospettive l’uomo è creato per servire gli dei, per compiere al posto degli dei il lavoro che offre cibo e bevanda. Capita anche che l’uomo sia legato al mondo degli dei in ragione anche della divinità immolata la cui carne e sangue sono mescolate all’argilla (Atra-hasis). In tutti questi casi la creazione dell’uomo discende da un ordine di necessità e non da una logica di gratuità come quella davanti alla quale ci colloca il testo biblico» (J. Briend, Gn 2-3 et la création du couple humain, in Aa.Vv., La création dans l’Orient ancien, Cerf, Paris 1987, pp. 128-129).

[8] «Contemporaneamente il gioco di parole ›adam/’adamah e l’uso della parola «polvere» che lo rafforza vogliono significare non soltanto lo stato di creatura legata al suolo e dunque alla terra, ma anche la finitezza di questa creatura» (ibidem, p. 127).

[9] «L’uomo è stato plasmato con la polvere (›aphar) del suolo. L’ ›aphar è la parte più sottile e superficiale del terreno. Si è voluto con questo far capire che la corporeità dell’uomo ha qualcosa di più evoluto della corporeità degli animali che è composta della ›adamah simpliciter, senza ulteriori specificazioni?» (A. Fanuli, Il racconto iahvista della formazione dell’uomo e del suo peccato [Gen 2,4b-3,24], in Il messaggio della salvezza. Pentateuco, storia deuteronomistica e cronista, a cura di A. Fanuli-A. Rolla, Elledici, Leumann [TO] 1977, p. 259).

[10] Il vocabolo nefesh (Cfr. C. Westermann, nefesh, in DTAT, II, coll. 66-68) che ha corrispondenti in tutte le lingue semitiche antiche con valori costanti variamente riconducibili alla serie gola, vita, appetito, essere vivente, ricorre 754 volte nel Primo Testamento, ove presenta questa sequenza di significati: anzitutto alito, respiro, gola, fauci; poi avidità, brama, pretesa; quindi anima, vita, essere vivente.

[11] C. Westermann, Genesi, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1989, pp. 32-33.

[12] «Dal momento che all’uomo, in quanto amministratore di Dio, è affidato il compito della salvaguardia del creato, l’essere-uomo si manifesta nell’AT indissolubilmente unito alla responsabilità. È evidente che da ciò si può far derivare un ethos che descrive il servizio in favore dei deboli e degli emarginati quale compito dell’uomo» (C. Frevel-O. Wischmeyer, Che cos’è l’uomo Prospettive dell’Antico e del Nuovo Testamento, tr. it., EDB, Bologna 2006, p. 68).

[13] «L’idea del paradiso terrestre che molti cristiani si fanno, in base all’istruzione ricevuta dalla fanciullezza, presenta molti punti di contatto col paese di Bengodi, o col pinocchiesco paese dei balocchi; un dolce far niente in un sito meraviglioso nel quale l’uomo si vede letteralmente cadere in bocca tutti i più saporiti frutti della terra… Ma nel paradiso di Adamo i frutti non cadono in bocca dell’uomo, egli deve lavorare. È ben vero che questo terreno si sottomette spontaneamente a lui, che la materia non recalcitra; è oltretutto vero che nemmeno gli animali si rivoltano all’uomo e che la pace regna sovrana, ma comunque l’uomo e la donna nel paradiso sono impegnati nel lavoro» (C. Caldelari, Pensieri familiari sulla Genesi, p. 54).

[14] ›e’eseh è un imperfetto di valore volitivo, che esprime un’azione intensamente desiderata.

[15] Un brano di Qo 4 sembra una sorta di «chiarificazione/commento» di questo versetto: «[9] Meglio essere in due che uno solo, perché due hanno un miglior compenso nella fatica. [10] Infatti, se cadessero, l’uno farebbe rialzare l’altro. Guai invece a chi è solo senza che ci sia un altro per rialzarlo. [11] Inoltre, se due dormono insieme, si possono riscaldare; ma uno solo come si riscalderà? [12] Se uno aggredisce, in due lo possono fronteggiare e una corda a tre capi non si rompe tanto presto».

[16] E. Manicardi, L’uomo creato come coppia, in Aa.Vv., Coppia e famiglia luogo di benedizione, San Lorenzo, Reggio Emilia 1996p. 27. «Si tratta di una relazione faccia a faccia fondata sulla parola, di cui l’animale è incapace. Una tale relazione presuppone che l’umano non soltanto riconosca l’altro ma possa anche essere riconosciuto da lui. Essa presuppone, quindi, che se l’uno dà all’altro modo di essere, questi, a sua volta, come in un’eco o in uno specchio, gli dia modo di essere» (A. Wénin, Pas seulement de pain… Violence et alliance dans la Bible, Cerf, Paris 1998, p. 49).

[17] Midrash Rabbà sulla Genesi, 17,3. Due testi primo-testamentari molto significativi in rapporto a Gen 2,18ss sono Sir 3,15-16 e 36,29.

[18] Uomo e donna, immagine di Dio. Il sabato. L’Aggadah su Genesi 2, p. 80; Cfr. Anche S. Agacinski, Métaphysique des sexes. Masculin/Féminin aux sources du christianisme, Seuil, Paris 2005, p. 123.

[19] L’imperfetto con waw conversivo wajjqra’ è assai eloquente in proposito.

[20] Circa questo sonno/torpore (in ebraico tardemà) cfr. Gen 15,12; Is 29,12; Gb 4,13; Prv 19,15.

[21] Molto significativa è la parafrasi seguente proposta per i vv. 23-24: «Con la costola che aveva preso da Adamo Dio fece una donna che stesse al suo fianco. Adamo si svegliò, vide Eva e canto una canzone. Quel giorno Dio aveva creato l’amore» (S. Giacomoni, La Nuova Bibbia Salani. L’Antico Testamento, Salani, Milano 2004, p. 20).

[22] Il vocabolo tsela’ (Cfr. P. Reymond, Dictionnaire d’hébreu et d’araméen bibliques, Cerf/SBF, Paris 1991, p. 319) vuol dire certamente costola umana, ma può indicare anche il fianco di una montagna (Cfr. 2Sam 16,13) o il lato dell’arca dell’alleanza (Cfr. Es 25,12). Cambiano i campi semantici, ma l’importanza strutturale resta. D’altra parte è comunque eloquente, in riferimento alla traduzione del termine tsela’ con la parola fianco, anche un passo del Talmud: «Dio non ha creato la donna dalla testa dell’uomo perché lo comandasse né dai suoi piedi perché ne fosse la schiava, ma dal suo fianco perché rimanesse vicina al suo cuore» (Midrash Rabbah sulla Genesi, 8,2).

[23] Ovviamente il problema non è chiedersi come tale «torpore» si sia prodotto oppure in che cosa sia consistita questa rimozione ossea: anche qui come in vari altri passi biblici non si tratta di dare spiegazioni circa le modalità degli eventi, ma rendere il loro senso: non si tratta, insomma, di spiegare delle particolarità della vita umana, ma di spiegare il significato dell’esistere umano.

[24] Un particolare di ordine retorico-strutturale assai significativo è la presenza, in prima e ultima posizione del v. 23b del pronome zo’t (= questa), il femminile riferito alla donna: tale formulazione accentua in misura notevole l’attenzione del lettore su tale oggetto del discorso.

[25] Si confronti il valore attivo del verbo chiamare del v. 20 (una forma che esprime l’agire dell’essere umano che dà il nome alle diverse creature) con il valore passivo dello stesso verbo nel v. 23 (sarà chiamata dice il testo, a partire dalla denominazione realizzata dal Creatore secondo il v. 22): dai testi si evince direttamente quanto la donna sfugga a qualsiasi possibile intervento/influenza/controllo da parte della creatura umana plasmata prima di lei proprio perché il suo nome solo dal Creatore discende e la sua denominazione presente e futura solo da ciò dipenderà.

[26] Il significato di attaccare insieme, incollare insieme, detto di oggetti ed elementi di materiale diverso, è comune a tutte le lingue semitiche occidentali. Il valore semantico anche traslato, come in Gen 2,24, fa riferimento ad un’adesione completa, più effettiva che intenzionale (Cfr. G. Wallis, dabaq, in Grande Lessico dell’Antico Testamento, tr. it., II, Paideia, Brescia 2002, coll. 91-92).

[27] Secondo Rabbi Aquiba, che interpreta il v. 24, «poiché il versetto dice che il maschio deve attaccarsi alla sua donna è dunque proibito unirsi a un’altra donna che non sia la sua e, anzitutto, alla donna di suo padre» (Trattato Sanhedrin, 58a).

[28] Il verbo hajû, che conclude il v. 24, esprime strutturalmente non soltanto un valore copulativo (essere in senso stretto), ma ad un tempo, divenire, capitare ed essere. Questo fatto certamente sottolinea processualità e progressività.

[29] B. Maggioni, Il seme e la terra. Note bibliche per un cristianesimo nel mondo, Vita e Pensiero, Milano 2003, p. 56.

[30] «Nella loro diversa modalità, i miti delle origini mesopotamici e greci, da una parte, e la versione biblica, dall’altra, incarnano l’idea che non può esservi creazione, per quanto buona, senza fare spazio alla possibilità del disordine, della trasgressione e del mare. Il Siracide potrebbe aver pensato proprio a questo quando concludeva la sua breve meditazione sulla creazione dell’umanità in questi termini: «Il bene è il contrario del male, la vita è il contrario della morte, così il peccatore è il contrario del pio. Considera tutte le opere dell’Altissimo; vengono a coppie, una l’opposta dell’altra» (33,14-15)» (J. Blenkinsopp, Creazione, de-creazione, nuova creazione. Introduzione e commento a Genesi 1-11, tr. it., EDB, Bologna 2013, p. 35).

[31] «All’inizio si dice che non è cosa buona per l’essere umano essere solo. Alla fine i due formano una sola carne, sono ridiventati uno. All’inizio questo essere-solo era solitudine, alla fine questo essere-uno è relazione» (W. Vogels, L’être humain appartient au sol [Gn 2,4b-3,24], in «Nouvelle Revue Théologique» [4/1983], 527).

[32] «Parlando in compagnia di Dio lungo il percorso della propria nascita, l’uomo partecipa con le sue labbra alla propria creazione, come se Dio andasse a tentoni» (P. Beauchamp, L’Uno e l’Altro Testamento. 2. Compiere le Scritture, tr.it., Glossa, Milano 2001, p. 115).

[33] Gen 1,27 sottolinea due dati: «da un lato l’umanità è un’entità singola. Tutti gli esseri umani stanno di fronte a Dio uniti da un vincolo di solidarietà. Ma d’altro canto l’umanità è anche una comunità, maschio e femmina. E né l’una né l’altra riproducono pienamente l’immagine di Dio, se prese singolarmente. Solo in entrambe Dio viene rispecchiato appieno. Secondo questa ardita affermazione Dio non è rispecchiato da dei singoli individui, ma da una comunità» (B. Maggioni, Il seme e la terra, p. 54).

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16 Settembre 2015 | 07:10
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