Donne e Chiesa: alcune prospettive

Nel 1963, nell’enciclica Pacem in terris, Giovanni XXIII invitava a considerare l’accesso delle donne alla vita pubblica come una delle novità più rilevanti – un altro «segno dei tempi» – di un mondo in via di profondo rinnovamento. Oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, la vita delle donne è decisamente cambiata, anzi talmente cambiata da mettere talvolta in crisi le società soprattutto dove le strutture patriarcali continuano a pesare nel quotidiano: facile pensare subito al mondo islamico, dimenticando le (gravi) inadempienze di casa nostra.

Perché proprio la Chiesa, tutt’altro che estranea a questa rivoluzione, almeno stando alla «novità» del cristianesimo, sembra segnare ancora il passo. Ed è solo di qualche anno fa una bella definizione dei gesuiti della rivista America che invocavano un cambio nel registro pastorale: «La Chiesa è qualcosa di più di un Club per soli uomini!».

Alla novità biblica che dichiarava l’unità della nostra umanità nella diversità, il cristianesimo ha aggiunto l’affermazione decisa dell’uguale dignità dei due sessi e della comune vocazione a realizzare insieme quella misteriosa immagine di Dio della quale tutta l’esistenza umana porta il sigillo, ma spesso tutto resta sulla carta.

A ricordarlo, di recente, in un piccolo saggio è stata la studiosa francese Anne-Marie Pelletier, sposata e madre di 3 figli, che, nel 2014, ha ricevuto il Premio Ratzinger per la teologia (prima donna dalla sua istituzione) e che ha insegnato, fino alla pensione, linguistica generale e letteratura comparata all’università di Parigi X, conseguendo nel frattempo una laurea in scienze religiose e oggi insegna scrittura all’Ecole cathédrale di Parigi.

Nel suo Una fede al femminile (Edizioni Qiqajon-Comunità di Bose 2018) offre una prospettiva di radicale cambiamento nella prassi ecclesiale: «Le donne sono più vicine a tutto ciò che mette in crisi le certezze inamovibili, fa scricchiolare gli otri delle parole e dei giudizi perentori che incasellano la verità e chiudono il futuro». Si tratta di «eludere i tranelli dell’autoreferenzialità, nella quale il discorso vive unicamente della citazione di se stesso, dimenticando che le problematiche e la critica del mondo circostante sono invece proprio al servizio della vitalità del cristianesimo» e, a conferma, porta l’esortazione Amoris laetitia dove le «Scritture intervengono non come argomento a conferma di una verità, ma come fonte di intelligenza spirituale». Una nuova consapevolezza che si fa comprendere, e apprezzare, soprattutto dalla concretezza femminile.

Non si tratta di novità di poco conto, ma frutto di quello «sguardo dalla periferia» che è ancora assente all’interno della Chiesa dove, a differenza della società, non mancano certo i «padri» (ben seduti al «centro» e il cui sguardo non giunge alla periferia), vista la (quasi) esclusiva presenza maschile e, ciò che è peggio, è loro il punto di vista dominante. In un mondo tutto al maschile dove, lo si voglia o no, per tradizione si parla «sulle» donne o al loro posto, forse «si dovrebbe ascoltare una parola femminile detta, una buona volta, in prima persona», affermava ancora negli anni ’80 il cardinale Cé in un incontro a Torreglia di fronte ad una platea femminile che l’aveva apprezzato con riconoscenza.

«Bisogna aprire un cantiere», aveva dichiarato papa Francesco ai giornalisti nel corso del volo di ritorno da Rio de Janeiro il 28 luglio 2013: un tema affrontato dal papa con coraggio (e anche con l’attuazione di alcune novità proprio in questi giorni messe all’indice dai soliti tradizionalisti, ma chi può dimenticare la levata di scudi per la lavanda dei piedi, pure femminili, al giovedì santo?): pensiamo alla sua denuncia di luoghi comuni: una femminilità esclusivamente ripiegata sulla maternità o le ambiguità di un servizio che si sostiene essere la specialità delle donne e che, molto spesso, degenera in mero asservimento, anche delle religiose…

Continua a leggere il commento di Maria Teresa Pontara Pederiva su Settimananews.

30 Novembre 2018 | 15:36
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