Fra Michele Ravetta.
Ticino e Grigionitaliano

«Una Chiesa capace di sporcarsi le mani là dove la misericordia è più necessaria»

di Michele Ravetta*
La seconda domenica del tempo di Pasqua che da san Giovanni Paolo II in poi è chiamata della Divina Misericordia per volontà del medesimo santo Pontefice, ci offre una stupenda occasione di riflessione su cosa sia questo «dono del cuore» che è la misericordia, nella sua duplice esperienza divina e umana. Tutto il tempo pasquale ci si offre come un canto di liberazione e di gratitudine per essere stati liberati dalle catene della morte, ma vi sono ancora e simbolicamente delle catene che non cadono per intervento angelico come accadde a san Pietro quando era detenuto nel carcere romano di Mamertino al Foro Romano. Catene invisibili che ci ricordano il necessario cum-patire che è tipico dei cristiani, la vicinanza a tutti coloro che sono nella prova o per cause esterne o per i propri agiti sbagliati.
Nella nostra Diocesi vi è un luogo dove la misericordia è necessaria più che mai perché è là che donne e uomini (e qualche raro minorenne) necessitano dell’incontro con una Chiesa che non li aspetta alla porta dei luoghi di culto ma nelle loro celle e là dove vivono talvolta per molti anni. Una Chiesa capace di sporcarsi le mani con la terra di cui è fatta l’umanità, sedendosi accanto a loro per esercitare l’antica arte dell’ascolto, l’incoraggiamento ed il perdono spirituale che prepara al giudizio umano che riceveranno dal giudice in tribunale. Pare che l’esperienza cristiana, per essere consolidata e credibile, debba passare anche dalla prigione quale luogo di pazienza e santificazione: proprio nelle carceri di Perugia, un giovane diciottenne proveniente da Assisi di nome Francesco, nel 1202 fece esperienza di prigionia per un anno e lì, dove tutto parlava di morte e condanna, il serafico padre ha sentito per la prima volta l’ebbrezza di sentirsi unito a Cristo che lo chiamava a cambiare di vita.
Il Giubileo straordinario della misericordia voluto da Papa Francesco nel 2015 era stato indetto con la bolla pontificia che già nel titolo del documento esprimeva la forza che l’esperienza cristiana porta avanti da duemila anni: Misericordiæ Vultus. L’incontro con una persona ferita, e il carcere è un sanatorio della società, l’elemento meno utile da portare è il giudizio. Il cristiano di tutti i tempi, specialmente in questa domenica, ricordi l’ammonimento dell’apostolo Giacomo: «La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio» (Gc 2,13). Bene esprimere il giudizio se questo corregge e migliora la vita del singolo nella società ma quando il giudizio opprime e umilia, allora ci si chieda in che modo stiamo vivendo il Vangelo, premesso che non tutti i furbi sono in carcere. Nel 2015, spontaneamente alcuni detenuti hanno decorato gli stipiti e l’architrave della porta della propria cella con fiori di carta e origami, perché quella porta fosse una «porta santa» e così lucrare l’indulgenza papale: non è anche questo un profondo sentimento di amore a Cristo e alla sua Chiesa?

* cappellano del carcere «La Stampa» di Lugano

Fra Michele Ravetta. | © screenshotrsi
7 Aprile 2024 | 08:33
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