I Rohingya e gli altri

Nel circuito mediatico internazionale si discute (e si polemizza) sulla mancata menzione della parola «Rohingya» nel discorso pronunciato da Papa Francesco di fronte alle autorità del Myanmar. Bergoglio aveva già lanciato appelli in favore dei Rohingya – molto forte quello dello scorso 27 agosto all’Angelus – nominando esplicitamente la minoranza etnica di religione musulmana perseguitata nello Stato birmano del Rakhine. Ma qui, come gli hanno ripetutamente chiesto autorità della Chiesa locale, ha parlato del rispetto dei diritti delle minoranze senza nominarne nessuna. C’è chi considera questo come un esempio di realpolitik e chi fa notare come con la sua scelta il Pontefice abbia voluto evitare di innescare nuove reazioni dei nazionalisti buddisti contro i Rohingya, in un momento in cui il governo birmano ha siglato un memorandum con il governo del Bangladesh, per permettere il ritorno nel Rakhine degli oltre cinquecentomila profughi costretti a fuggire lo scorso agosto.

 

Ma c’è anche un’altra ragione. I Rohingya infatti non sono l’unica minoranza discriminata in Myanmar. Lo evidenzia silenziosamente il bastone pastorale di legno che Francesco ha utilizzato per celebrare la messa nel Kyaikkasan Ground di Yangon. Un oggetto artigianale donatogli dai rifugiati cattolici della minoranza Kachin, che vivono nel campo profughi della città di Winemaw, nello stato Kachin, nella parte settentrionale del Myanmar. Una zona a maggioranza cristiana.

 

Come racconta l’agenzia Fides, i fedeli Kachin si trovano nel campo profughi di Winemaw a motivo della guerra civile tra l’esercito birmano e i gruppi armati Kachin: è uno dei tanti conflitti a sfondo etnico che si registrano nel Paese, composto, a livello sociale, dalla maggioranza bamar (birmani) e da 135 minoranze etnico linguistiche. I profughi Kachin hanno offerto il pastorale di legno al Pontefice «come auspicio per riportare la pace nello stato Kachin, dato che non sarà possibile per loro partecipare alla Messa a Yangon, a causa dello stato di indigenza in cui versano».

 

La guerra civile tra il Kachin Independent Army (KIA) e le truppe governative dura dal 1965. Nel 2010 è stato negoziato un cessate il fuoco, poi violato nel 2015. La guerra ha costretto centinaia di migliaia di Kachin (tra i 7 principali gruppi etnici del Myanmar), a fuggire e trovare riparo nei campi profughi. «La Chiesa cattolica locale – informa Fides – li sta sostenendo: nella diocesi di Myitkyina vi sono oltre 8mila sfollati che non possono rientrare nei loro villaggi per la violenza che prosegue. La Caritas li assiste, cercando di predisporre per loro anche la possibilità di coltivare la terra, perché essi stessi possano contribuire al loro sostentamento».

 

I Vescovi birmani lo scorso anno hanno denunciato che «più di 150.000 persone languono nei campi profughi, ridotte alla condizione di sfollati e in attesa di aiuti internazionali», deplorando che «una guerra cronica ha prodotto solo perdenti, cioè le persone innocenti abbandonate nei campi, mentre le loro terre sono disseminate di ordigni, il traffico di esseri umani imperversa, la droga è una condanna a morte per i giovani kachin, le risorse naturali come le miniere di giada sono saccheggiate. Questa è la causa principale del conflitto».

Andrea Tornielli – VaticanInsider

29 Novembre 2017 | 20:00
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