La saggezza della comunità – Si apre a Bose il quindicesimo convegno liturgico internazionale

2017-05-31 L’Osservatore Romano
La Lumen gentium afferma la precedenza del popolo di Dio sulla gerarchia, della vita teologale sulle funzioni ministeriali e gli stati di vita, in ragione della precedenza dell’essere sul fare. La rivoluzione copernicana del concilio trova il suo fondamento nel rapporto costitutivo tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, che «differiscono per essenza e non tanto per grado», e che per questo «partecipano ambedue, ciascuno a suo proprio modo, all’unico sacerdozio di Cristo» (Lumen gentium, 10). Si tratta dell’unica differenza essenziale nella Chiesa, che abilita qualcuno — in forza della configurazione sacramentale a Cristo-capo — ad agere in persona Christi in favore della comunità sacerdotale. Tutte le altre differenze sono espressione della grazia battesimale.

Non si tratta perciò di negare la gerarchia per innalzare i laici, di cancellare le funzioni per affermare un potere concorrente del popolo di Dio; si tratta piuttosto di tornare ai giusti processi ecclesiali, in grado di garantire la crescita della Chiesa come «comunità di fede, speranza e carità» (Lumen gentium 8), e perciò di ogni suo membro nella vita teologale, attraverso la circolarità continua tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, tra la comunità sacerdotale e i suoi pastori.
Lumen gentium aveva descritto il sensus fidei come partecipazione del popolo di Dio alla funzione profetica di Cristo: «La totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione del Santo (cfr. Giovanni 2, 20.27) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua peculiare proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici», esprime il suo universale consenso in materia di fede e di morale. Con il senso della fede suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero al quale fedelmente si conforma, accoglie non già una parola di uomini, ma realmente la Parola di Dio; aderisce indefettibilmente «alla fede trasmessa una volta per tutte ai santi», vi penetra più a fondo con retto giudizio e più pienamente la applica alla vita» (Lumen gentium 12).
L’ecclesiologia conciliare conferisce al sensus fidei il suo giusto posto e rilievo: la rivoluzione copernicana in ecclesiologia permette di recuperare effettivamente la funzione attiva del popolo di Dio non solo nel campo ristretto dello sviluppo dogmatico, ma in tutti i processi della vita ecclesiale, compreso l’ambito dell’architettura e dell’arte sacra. Se si tratta, infatti, di una forma peculiare di esercizio del sacerdozio comune — la partecipazione alla funzione profetica di Cristo da parte della totalità dei battezzati — il suo esercizio avviene nella circolarità continua con il munus docendi dei Pastori della Chiesa. La difficile recezione di una dottrina. Basterebbero queste affermazioni per tentare un collegamento del sensus fidei con il processo — immaginato dal presente convegno — di «fare, abitare, costruire, celebrare, trasformare», in una relazione armonica di «committenza, architetti, artisti e comunità cristiana, in dialogo con il tessuto sociale e ambientale circostante». Sarebbe, però, una scorciatoia, o un cortocircuito, dal momento che la teologia post-conciliare, una volta affermata enfaticamente la novità del sensus fidei, ha di fatto trascurato questa dottrina, come pure la dottrina del sacerdozio comune; anzi, l’uso polemico che è stato fatto di questi temi, mettendo in competizione il sacerdozio comune con il sacerdozio ministeriale, e opponendo l’autorità dottrinale dei fedeli al Magistero della Chiesa, ha spinto quest’ultimo a inquadrare la teologia del popolo di Dio e, in particolare, il sensus fidei nel fenomeno del dissenso. Se così fosse, come immaginare un contributo al «fare Chiesa» di un soggetto — il popolo di Dio — che rivendica in termini polemici una funzione alternativa alla gerarchia?
In realtà, a essere polemica non è stata la universitas fidelium — alla quale difficilmente viene concessa la parola — ma quanti si erano eletti a suoi interpreti qualificati: soprattutto teologi che hanno assunto il sensus fidei come istanza democratica nella Chiesa, opponendo carisma a istituzione, libertà a verità, popolo di Dio a gerarchia, in uno schema ideologico che ha molto compromesso e frenato il processo di rinnovamento ecclesiale avviato dal Vaticano ii. A causa di tale deriva il sensus fidei non ha conosciuto la dovuta attenzione nel processo di recezione del concilio, con la conseguenza di disattendere le enormi possibilità di applicazione che il quadro ecclesiologico disegnato da Lumen gentium offriva al suo esercizio. Di fatto, nel Magistero post-conciliare si è preferito glissare sul tema, passando a una più comoda teologia del laicato, costruita sul rapporto di collaborazione con la gerarchia piuttosto che sul primato del popolo di Dio.

di Dario Vitali

1 Giugno 2017 | 10:35
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