Teologa del dialogo

 di Diego Piovani

Missionari Saveriani marzo 2015

A fine anni ’80, Cristina con la famiglia trascorreva le vacanze al mare in Jugoslavia. Si spostava in camper sull’altra sponda dell’Adriatico, vicino a Dubrovnik, nell’attuale Croazia. Cristina era la mia compagna di banco alle scuole medie. Ricordo la sua commozione e tristezza quando i luoghi della spensieratezza estiva erano stati bombardati e distrutti.

Le immagini della guerra arrivavano anche nei nostri telegiornali. L’insegnante di lettere, in una lezione «fuori programma», ci spiegava quel che stava accadendo, prima ancora che l’escalation degli scontri assumesse le caratteristiche di un genocidio. Nell’epoca delle tessere telefoniche che stavano sostituendo monete e gettoni, dopo le notti magiche di Italia ’90, avevamo una guerra fuori l’uscio di casa, senza esserne del tutto consapevoli.

Oggi c’è più tecnologia, siamo più social e collegati in… rete: le notizie arrivano in fretta. Ma tra un tweet, un post e una partita di champions league, un’altra guerra è scoppiata ai confini dell’Europa. In Ucraina si muore sotto le bombe, come in Jugoslavia vent’anni fa. Forse l’Europa ora è più consapevole di allora e ha deciso di cercare una soluzione prima che sia troppo tardi. I numeri fanno già spavento e di nuovo si contano altri orfani laddove, qualche anno fa, si svolgevano i campionati europei di calcio.

«Onde alte tre piani e nulla intorno, solo buio e paura di morire: era l’apocalisse! Abbiamo fatto i turni nella plancia di comando perché tutti potessero scaldarsi, ma tanti non ce l’hanno fatta». Sono le parole di uno dei soccorritori che sulla sua motovedetta, al largo di Lampedusa, ha messo a rischio la propria vita per i profughi provenienti dalla Libia.

«Sono 51 milioni le persone che fuggono dalle guerre», ha aggiunto la portavoce dell’Unhcr, mentre il capitano di vascello Filippo Marini ha accusato di omicidio chi costringe ad andare per mare con un gommone a tubolare unico. «La criminalità impone partenze e Lampedusa raccoglie i morti», è lo sfogo del sindaco Nicolini.

Ma il problema sembra sia diventato «chi» e «come» soccorre, più della necessità effettiva di soccorrere. Ma perché non tornare indietro, viste le condizioni del mare? Perché rischiare? Perché dietro ci sono le armi ad aspettarli, c’è la distruzione e nessuna speranza. Ma quel mare è molto meno «social» di uno smartphone, di un tweet, di un post o di una partita di champions league.

Impossibile abituarsi! Gli occhi del ragazzino delle medie oggi sono quelli di un uomo che ha lo smartphone, legge tweet, scrive post e guarda la champions league. Eppure, tra una mimosa da regalare alle donne di un mondo sciupato, l’inquinamento cancerogeno delle città e le risse della politica, tutto passa e scorre, tranne una cosa: è impossibile abituarsi a qualsiasi tipo di guerra – che sia d’armi, di parole o di gesti -, alle immagini di rovine dell’oggi, a certe considerazioni troppo… social e molto meno utili.

Quanto sono distruttive certe nostre azioni, quanta fatica si fa a ricostruire rapporti infranti; con quanta facilità accusiamo o troviamo il pretesto per giudicare vite ammaccate da scelte sbagliate e poi pagate! Sono le «guerre» del nostro tempo, i drammi quotidiani di chi però mantiene sempre il sogno di cambiare, almeno un po’, il proprio angolo di mondo, come ha fatto il martire e (finalmente!) prossimo beato Oscar Romero.?

31 Marzo 2015 | 12:10
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