Hava Nagila. Rallegriamoci e siamo felici

In ricordo di Federica Spitzer e delle care signore della Wizo

Parecchi anni fa aiutavo un gruppo di signore ebree che facevano volontariato per l’associazione benefica «Wizo». Si occupavano di raccolta di fondi, con un mercatino, per l’aiuto a madri in difficoltà in Israele.

Quello era l’ultimo giorno di vendita, e il pomeriggio volgeva al termine. Stavamo incartando e riponendo negli scatoloni le cose rimaste, che sarebbero servite per la vendita dell’anno successivo.

C’erano pellicce, borsette di coccodrillo «vintage», cappotti di sartoria, argenti di Galitzky, profumi donati dal patron dei grandi magazzini e tanto altro, nuovo o di seconda mano.

In mezzo a tutte quelle rispettabili signore, Sara ed io eravamo le più giovani, lei più di me.

Stavamo chiacchierando e lavorando quando mi capitò tra le mani un bellissimo flacone di profumo Chloé alla tuberosa. Guardai il prezzo: cinquanta franchi. Troppi, pensai, non me lo posso permettere. Lo rimisi a posto. Sara mi disse: «Perché non lo prendi?» Risposi «Costa troppo per me…» e sorrisi.

Sara abitava a Tel Aviv, aveva fatto l’esperienza del kibbutz e finito da poco il servizio militare. Era bella come sua madre Anita, che invece risiedeva a Londra. Le altre signore, in maggioranza anziane, parlottavano tra loro.

Guardando gli abiti e l’altra merce, si esprimevano in yiddish, inglese, spagnolo, tedesco, francese… l’impressione era di essere un po’ in una Babele.

Io, una «goi» (cioè non ebrea) ero stata per il gruppo inizialmente oggetto di curiosità e diffidenza. Ma quando Fritzi, detta anche Esther, la mia vicina di casa, mi aveva poi presentato come amica e come collaboratrice dell’associazione, ero stata ben presto accettata.

Quando calò la sera, si accesero le luci nel salone di conferenze dell’albergo Pestalozzi, il luogo del mercatino. Sara ed io ci stavamo annoiando, Fritzi si occupava della cassa. C’era aria di chiusura. Poi qualcuno portò dello spumante. Guardai Sara e cominciai a canticchiare «Hava Nagila», una bella canzone ebraica il cui significato è «rallegriamoci e siamo felici».

Incitai Sara: «Su, cantiamo!». Cominciammo in sordina, quindi via via, con le nostre belle voci, a gola spiegata, con gioia, incuranti di tutto, scaldate dal nostro entusiasmo. Un po’ alla volta, le anziane signore si zittirono e si avvicinarono, mentre il nostro entusiasmo si diffondeva. «…uru uru achim uru achim…» battendo le mani a tempo coinvolgemmo anche loro …»uru achim b’lev sameach»… che vuol dire «svegliatevi fratelli col cuore felice».

Qualcuna si tolse gli occhiali e si asciugò una lacrima. Tutte all’unisono, finimmo con un tono più alto, con le guance in fiamme. Infine scrosciarono gli applausi.

Ci abbracciarono, ci ringraziarono, persone che avevano patito l’inferno e sofferto come non poche, per un momento ritrovarono la gioia ed il piacere che il canto e la musica danno.

Mi chiesero come mai conoscessi quella canzone e spiegai che in gioventù avevo lavorato nel settore musicale.

Brindammo felici ed entusiaste con «Lechaim», un augurio alla vita. L’atmosfera si fece nostalgica. Anita mi si avvicinò: «Miriam» disse chiamandomi con il nome ebraico che Fritzi soleva usare nei miei confronti, «Esther ha detto che questo è per te» e mi porse il flacone di profumo che sognavo.

Dopo averla abbracciata, corsi da Fritzi e quasi piangendo ricevetti il suo affettuoso bacio e il suo grazie.

A poco a poco, negli anni successivi, l’attività del gruppo di volontarie finì. Alcune partirono, altre smisero per essere diventate troppo vecchie, altre si trasferirono in Israele, alcune passarono a miglior vita, come Fritzi, che sempre ho nel cuore.

Sara e Anita dove saranno?

Tutte restano nel mio cuore, loro forse non si ricorderanno di me, ma io non le dimenticherò mai.

di Maria La Placa Osterwalder

27 Gennaio 2015 | 11:32
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