Dibattiti sinodali – Sì a deroghe per i divorziati risposati

di ANDREA TORNIELLI
Vatican Insider

«La visione di Francesco è quella di una Chiesa per tutti, perché Cristo è morto davvero per tutti gli uomini, senza eccezioni, non per alcuni», la «legge di gradualità» non significa «gradualità della legge» o relativismo. E senza mutamenti dottrinali è possibile prevedere delle deroghe caso per caso ammettendo i divorziati risposati ai sacramenti. Lo afferma il teologo domenicano Jean-Miguel Garrigues, docente di patristica e dogmatica all’Institut Supérieur Thomas d’Aquin, allo Studio domenicano di Tolosa e al Seminario di Ars, collaboratore del confratello Cristoph Schönborn, oggi cardinale arcivescovo di Vienna, nella redazione del Catechismo della Chiesa cattolica preparato sotto la direzione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger. Padre Garrigues ha dialogato sui temi del Sinodo con padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica e la trascrizione del colloquio viene pubblicata sul nuovo numero della rivista. Pur senza nominarlo direttamente, in un passaggio il teologo domenicano stronca le tesi del gesuita statunitense Joseph Fessio, il quale ha scritto che la contraccezione può essere più grave dell’aborto.

«La visione di Francesco – spiega Garrigues – è quella di una Chiesa per tutti, perché Cristo è morto davvero per tutti gli uomini, senza eccezioni, non per alcuni. La Chiesa non è quindi un club selettivo e chiuso: né quello di un ambiente sociale cattolico per tradizione, e nemmeno quello di persone capaci di virtuoso eroismo».
L’obiettivo è «aiutare le anime nella situazione concreta in cui il Signore le chiama».

Il teologo domenicano non indulge ad alcuna forma di relativismo o lassismo: «Penso che perdere la comprensione dei fondamenti della coppia e della famiglia significherebbe voler procedere senza bussola, governati soltanto da una compassione affettiva condannata a cadere in un sentimentalismo irrealista. Per esempio, è una verità insuperabile che tutti i cristiani vivono sotto la legge del Cristo e che a tutti vada applicata l’indissolubilità del matrimonio. Non c’è dunque «gradualità della legge», una finalità morale che varierebbe a seconda delle situazioni del soggetto». Ma, aggiunge, «non significa negare o relativizzare questa verità il fatto di chiedere a coloro che non riescono a seguire questo comandamento del Cristo di non aggiungere al peccato di infedeltà quello di ingiustizia, per esempio non pagando l’assegno di mantenimento in seguito a un divorzio civile. Come diceva re Luigi XV a un cortigiano che si faceva beffe di lui perché continuava a mangiare di magro il venerdì mentre aveva un’amante: «Il fatto di compiere un peccato mortale non autorizza a farne due». Ecco dove si colloca la «legge di gradualità», che invita le persone che, di fatto, non sono capaci di rompere di colpo con un peccato e uscire progressivamente dal male cominciando a fare la parte di bene, ancora insufficiente ma reale, di cui sono capaci. C’è una casistica che verte su quello che definirei come «l’esercizio progressivo del bene». Essa non contraddice in nulla il principio secondo il quale specificamente la legge naturale e la legge di Cristo si applicano in uguale misura a tutti i cristiani».

Garrigues chiede di evitare la pastorale del «tutto o niente», perché «sembra più sicura» ma «porta inevitabilmente a una «Chiesa di puri». Valorizzando prima di tutto la perfezione formale come un fine in sé, si rischia disgraziatamente di coprire di fatto molti comportamenti ipocriti e farisaici».

«Il discernimento penetrante del Papa sulla dinamica personale dei nostri atti umani – spiega ancora il teologo domenicano – non si può confondere banalmente con il relativismo. Sarebbe insensato confondere la «legge di gradualità» — che ha come scopo un esercizio progressivo e sempre finalizzato dell’atto libero verso la virtù — con il relativismo soggettivista di una «gradualità della legge». L’enciclica Veritatis splendor di san Giovanni Paolo II ha chiuso la porta a questo vicolo cieco. Ma ha lasciato aperto il cantiere dell’esercizio prudenziale dell’atto libero di un uomo peccatore che, salvo una grazia eccezionale, non si moralizza in un solo colpo».

Garrigues propone la metafora del Gps, del navigatore. Quando sbagliamo strada o ci distraiamo, l’apparecchio ricalcola il percorso adattandolo alle nostre esigenze e tenendo conto dei nostri errori, al fine di raggiungere la meta che rimane la stessa. «Ecco: analogamente, ogni volta che deviamo a causa del nostro peccato, Dio non ci chiede di tornare al nostro punto di partenza, perché la conversione biblica del cuore, la metanoia, non è un ritorno platonico all’inizio. Dio ci ri-orienta verso Lui stesso tracciando un nuovo percorso verso di Lui. Notiamo che, come gli indirizzi non cambiano nel Gps, così i fini morali non cambiano nel governo divino. Quello che cambia — e quanto! — è il percorso di ogni persona nel suo libero cammino verso la moralizzazione teologale, e infine verso Dio. Pensiamo al numero di itinerari alternativi che il Gps divino ha dovuto indicare al buon ladrone prima della scorciatoia ultima e supremamente drammatica della croce».

Garrigues, a proposito del documento finale del Sinodo, osserva: «È significativo che uno dei punti che ha suscitato più inquietudine sia l’affermazione secondo cui ci può essere del bene umano in persone che si trovano in unioni di fatto, che o non sono assimilabili al matrimonio, come le unioni omosessuali, o realizzano solo imperfettamente i suoi requisiti, come le unioni civili o le unioni tra uno o due divorziati che si sono risposati. Si misura qui come un certo giansenismo rischi di scivolare nei sostenitori di una «Chiesa di puri»».

«San Tommaso – spiega – fondandosi sul caso del centurione Cornelio in At 10,31 osserva: «Le azioni degli infedeli non sono tutte peccato, ma alcune sono buone». E precisa dicendo che, poiché il peccato mortale non guasta totalmente il bene della natura, l’infedele può fare anche una buona azione in ciò che non comporta l’infedeltà come un fine. Per san Tommaso, anche se senza la grazia non possiamo fare «tutto» il bene che è nella nostra natura, perché essa è ferita non essendo più ordinata al suo fine ultimo, tuttavia possiamo porre degli atti moralmente buoni in questo o quell’ambito della nostra vita, senza che questa diventi moralmente buona nella sua finalità personale».

«Gli uomini possono camminare verso la salvezza del Cristo – aggiunge Garrigues -compiendo una parte non trascurabile di bene morale in una unione imperfettamente matrimoniale. Se le persone non si santificano mediante queste unioni di fatto, possono comunque farlo in queste unioni per tutto ciò che in esse dispone alla carità attraverso l’aiuto reciproco e l’amicizia. Tutti coloro che hanno frequentato divorziati che si sono risposati civilmente e coppie omosessuali hanno potuto spesso constatare questa disposizione talvolta eroica, per esempio in caso di prove fisiche o morali. In che cosa il negare tutto questo renderà più forti le nostre certezze e la nostra testimonianza alla verità?».

Il teologo si chiede inoltre come «una pastorale più misericordiosa verso i «deboli» possa far sì che le coppie «forti» e talvolta eroiche possano sentirsi disprezzate», come molti, anche vescovi, hanno osservato durante e dopo il lavoro sinodale. «Se questo avviene – commenta Garrigues – vuol dire che la loro virtù è troppo basata sul compiacimento di sé e, di conseguenza, è un’»opera morta», perché priva di carità. La carità si esprime invece nella misericordia, ed è capace di unirsi fraternamente a colui che avanza a tentoni sul percorso della sua vita, di riconoscere la parte di bontà che rimane in lui e di portare con lui un po’ del suo fardello».

Il teologo domenicano critica quindi la tesi di padre Fessio, pur senza nominarlo: «La rigidità dottrinale e il rigorismo morale possono portare anche i teologi a posizioni estremiste, che sfidano il sensus fidei dei fedeli e perfino il semplice buon senso. Una recente cronaca giornalistica cita, elogiandola, la lettera di un teologo americano che fa queste affermazioni insensate: «Qual è, in questo caso, il male più grave? È quello di prevenire la concezione — e l’esistenza — di un essere umano dotato di un’anima immortale, voluto da Dio e destinato alla felicità eterna? Oppure interrompere lo sviluppo di un bambino nel ventre di sua madre? Un tale aborto è certamente un male grave ed è qualificato dalla Gaudium et spes come «crimine abominevole». Ma esiste comunque un bambino che vivrà eternamente. Mentre, nel primo caso, un bambino che Dio volesse vedere venire al mondo non esisterà mai». Con questo ragionamento si ritiene, dunque, più accettabile l’aborto che la contraccezione. Incredibile!»

Questa stessa corrente, secondo Garrigues ha voluto che dalla dichiarazione finale del Sinodo sulla famiglia dell’ottobre 2014 «si ritirasse il riferimento alla «legge di gradualità» che, come le dicevo prima, deve certamente essere spiegata come gradualità dell’esercizio del soggetto e distinta da una «gradualità della legge» nella sua specificazione. Ma questo era già presente in modo significativo nell’Esortazione apostolica post-sinodale di san Giovanni Paolo II Familiaris consortio (1981) ed è applicato nella pratica dalla maggior parte dei confessori e dei padri spirituali che vogliono accompagnare pastoralmente coloro che san Giovanni Paolo II chiamava «i feriti dalla vita»».

Infine, il teologo domenicano propone due esempi significativi avanzando l’ipotesi di una deroga alla disciplina sacramentale che impedisce ai divorziati risposati di accedere ai sacramenti. «Penso ad una coppia della quale un componente è stato precedentemente sposato, coppia che ha bambini e ha una vita cristiana effettiva e riconosciuta. Immaginiamo che la persona già sposata abbia sottoposto il precedente matrimonio a un tribunale ecclesiastico che ha deciso per l’impossibilità di pronunciare la nullità in mancanza di prove sufficienti, mentre loro stessi sono convinti del contrario senza avere i mezzi per provarlo. Sulla base delle testimonianze della loro buona fede, della loro vita cristiana e del loro attaccamento sincero alla Chiesa e al sacramento del matrimonio, in particolare da parte di un padre spirituale esperto, il vescovo diocesano potrebbe ammetterli con discrezione alla Penitenza e all’Eucaristia senza pronunciare una nullità di matrimonio. Egli estenderebbe così a questi casi una deroga puntuale a titolo della buona fede che la Chiesa già dà alle coppie di divorziati che si impegnano a vivere nella continenza». È da notare che in quest’ultima situazione si tratta già di un atto di clemenza circa l’applicazione della legge a un caso concreto, perché, osserva Garrigues, «se la continenza elimina il peccato di adulterio, non sopprime tuttavia la contraddizione tra rottura coniugale con formazione di nuova coppia — che vive comunque legami di carattere affettivo e di convivenza — e l’Eucaristia».

L’altro tipo di situazione proposta «è indubbiamente più delicato», osserva il teologo. «È quello in cui, dopo il divorzio e il matrimonio civile, i congiunti divorziati hanno vissuto una conversione a una vita cristiana effettiva, di cui può essere testimone tra gli altri il padre spirituale. Essi credono comunque che il loro matrimonio sacramentale sia stato veramente tale e, se potessero, cercherebbero di riparare la loro rottura perché vivono un pentimento sincero: ma hanno dei bambini, e d’altronde non hanno la forza di vivere nella continenza. Che cosa fare in questo caso? Si deve esigere da loro una continenza che sarebbe temeraria senza un carisma particolare dello Spirito? Si tratta di domande su cui si dovrà riflettere».

«Per la Chiesa – conclude Garrigues – si tratterebbe di una deroga puntuale a una disciplina tradizionale, fondata certo sull’altissima convenienza sacramentale tra Eucaristia e matrimonio, a motivo sia di un dubbio verosimile sulla validità del matrimonio sacramentale, sia di un impossibile ritorno, de facto ma non di desiderio, allo statu quo matrimoniale anteriore al divorzio. Nei due casi questa deroga interverrebbe a favore di una vita cristiana solidamente costituita».

Il teologo si dice invece contrario a leggi per tutti i divorziati risposati: «Molti sono invece i casi di coppie molto marginali rispetto alla vita cristiana e alla pratica religiosa che reclamano con grande scalpore mediatico un cambiamento della disciplina della Chiesa nei confronti dei divorziati che si sono risposati, prima di tutto perché essa dia un riconoscimento sociale della loro nuova unione, accettando in un modo o in un altro il principio di un nuovo matrimonio dopo il divorzio. Legiferare per loro rischiando di compromettere il significato del matrimonio fedele e indissolubile, che molte coppie cristiane vivono non senza sforzo, significherebbe incoraggiare un’altra forma di questa «mondanità spirituale» che il Santo Padre giustamente individua. La definirei una «mondanità religiosa»».

29 Maggio 2015 | 18:00
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