Ticino e Grigionitaliano

Quattro sacerdoti ticinesi festeggiano il traguardo dei novant’ anni

di Federico Anzini

Novant’anni: quasi un secolo! Don Oliviero Bernasconi, don Italo Meroni, don Giuseppe Pessina, don Vittorino Piffaretti, nati nel 1930, hanno raggiunto quest’anno un invidiabile traguardo. Le candeline sono state ovviamente spente in date differenti: 27 gennaio (don Meroni), 20 febbraio (don Pessina), 22 maggio (don Piffaretti) e 29 settembre (don Bernasconi). Per tre di loro anche stesso anno di ordinazione presbiterale: 1953. Don Piffaretti è diventato sacerdote l’anno successivo. Tanti anni di fedeltà ad un’unica missione: annunciare la Parola di Dio, celebrarla nella liturgia, testimoniarla nella carità. Anni al servizio di ben 7 vescovi: Angelo Jelmini, Giuseppe Martinoli, Ernesto Togni, Eugenio Corecco, Giuseppe Torti, Pier Giacomo Grampa e ora Valerio Lazzeri.

A servizio della Chiesa ticinese

Ricordarli con riconoscenza in questo novantesimo compleanno è occasione per sottolineare il loro prezioso servizio dedicato alla nostra Chiesa ticinese. Vuol dire ricordare con stima e affetto persone che hanno camminato con la gente loro affidata, annunciando il Vangelo, alleviando sofferenza e dolore, donando speranza e fiducia. Anni su anni in una comunità, per dare risposte vere a domande e bisogni, parafrasando nel cuore il motto del grande S. Agostino: con voi sono cristiano, per voi sono parroco o meglio ancora curato, parola che indica immediatamente cura, attenzione, preoccupazione, partecipazione, vicinanza. «Buongiorno, curato», era del resto il famigliare saluto del vescovo Martinoli all’inizio di una visita pastorale.

Umili origini contadine

Sono nati e cresciuti quando la nostra terra era ancora segnata dalla civiltà contadina: ricca di solidarietà e impregnata di forte religiosità. Anni in cui la presenza dei fedeli alle celebrazioni, ancora in latino, era ben superiore a quella attuale. Le chiese, sebbene più fredde della «grotta di Betlemme», traboccavano di fedeli. Anni poi segnati dalla svolta verso il terziario: finivano in un angolo vanghe e rastrelli e larghe distese di verde venivano sacrificate allo sviluppo industriale.

Era anche il tempo del Concilio Vaticano II, che portava una ventata di novità sul piano dei contenuti, della liturgia e della stessa partecipazione, facendo finalmente capire che Chiesa significa «Popolo di Dio».

Don Oliviero Bernasconi

L’architetto Mario Botta, mons. Pier Giacomo Grampa, lo scultore Selim Abdullah e don Oliviero Bernasconi in occasione dell’inaugurazione della facciata e del portone della chiesa di Genestrerio.

La particolarità di questo sacerdote é che è rimasto per tutta la vita al servizio della stessa comunità. Nel luglio 1953, un mese dopo la sua ordinazione presbiterale, iniziava il suo impegno pastorale a Genestrerio, dove è tuttora parroco. «Mi ritengo molto fortunato perché mi sono sentito subito a casa – ci dice don Oliviero – e la porta della mia abitazione era sempre aperta a tutti. Ho così instaurato nel tempo dei bellissimi rapporti d’amicizia». Con un’espressione simpatica e famigliare, durante un incontro comunitario e festoso di qualche anno fa, ha detto davanti a tutti di sentirsi il nonno di quella sua gente, di cui conosceva ogni volto. Ad alcuni è stato particolarmente vicino, come a Mario Botta, incoraggiandolo e sostenendolo nel suo cammino formativo e al quale ha affidato la costruzione della casa parrocchiale di Genestrerio, in cui l’allora giovane architetto già dava prova del suo talento.

Di carattere gioioso e cordiale don Oliviero era per certi aspetti anche un po’ controcorrente con quel suo Montgomery indossato sopra la talare nei mesi freddi, negli anni Sessanta quasi un distintivo delle nuove generazioni. La sua comunità, meno cresciuta demograficamente rispetto ad altre della terra mo-mo, gli ha permesso di essere attivo in ambiti culturali e di insegnamento molto impegnativi, sostenuto e agevolato peraltro della sua profonda formazione teologica e filosofica. «Mi piaceva studiare – ci confida don Oliviero – perché ho una personalità curiosa e desidero scoprire sempre cose nuove. Ho avuto grandi maestri. A Milano, dove ho studiato, ho conosciuto anche il card. Schuster, uomo di grande fede e cultura. Andavo sempre ad ascoltare i suoi commenti sui padri della Chiesa». Poi sono arrivati gli anni della docenza al Seminario San Carlo a Lugano e all’Università di Friborgo, l’impegno in commissioni diocesane e svizzere, alla Facoltà di teologia di Lugano e presso il Tribunale interdiocesano, fino al compito di vicario generale con il vescovo Giuseppe Torti.

Don Vittorino Piffaretti

Don Vittorino Piffaretti con la sorella Ida nella casa di riposo Paganini Re di Belllinzona

Dopo essere stato pastoralmente attivo a Gnosca, Preonzo, Moleno, Tenero, Contra e Mendrisio, rinunciava nel 1991 all’arcipretura del «Borgo Vecchio», rispondendo positivamente al vescovo Eugenio Corecco che cercava un cappellano dell’ospedale San Giovanni di Bellinzona, incarico che don Vittorino avrebbe ricoperto fino al 2005. Un compito delicato e pastoralmente molto significativo, sia perché confronta direttamente con la sofferenza e sovente con la morte, sia perché, accompagnando una persona malata, si accompagnano anche in familiari, lungo un percorso di progressivo e fiducioso abbandono.

Don Giuseppe Pessina

Don Giuseppe Pessina con papa Giovanni Paolo II in Val d’Aosta

Dopo un anno quale vicario ad Ascona, ha seguito le comunità di Caneggio, Monte e Sagno, per poi servire in seguito Stabio e Mendrisio, assumendo infine nel 1999 il compito di cappellano dell’ospedale Beata Vergine a Mendrisio, lasciato solo un anno fa nell’estate del 2019. «Spesso in un letto d’ospedale, non si riesce a prendere sonno e così – ci dice don Giuseppe – i pazienti hanno voglia di condividere domande e pensieri profondi. Amare concretamente le persone anziane o ammalate vuol dire dedicare loro del tempo, ascoltarle, trasmettere loro affetto e vicinanza perché come ci ricorda Papa Francesco nessuno è uno «scarto»». Ai giovani don Giuseppe raccomanda di «mettere su famiglia» perché non c’è gioia più grande di quella di mettere al mondo dei figli e sostenerli nel loro cammino.

Don Italo Meroni

Don Italo Meroni con Papa Francesco al termine dell’udienza generale del 12 giugno 2013 in piazza S. Pietro.

Seppur molto legato al Mendrisiotto, ha sempre svolto altrove la sua missione. Dapprima a Vernate e Cimo, quindi a Biasca e poi dal 1963 ad Arbedo, guidando con grande dedizione questa comunità fino all’agosto del 2016.

Il più bel ricordo? La dedicazione della nuova chiesa di San Giuseppe ad Arbedo avvenuta il 18 maggio 1969 per la cui realizzazione si era tanto impegnato, affinché la sua comunità, sempre più popolosa, avesse pure un luogo di culto. Quando mons. Giuseppe Martinoli entrò in chiesa per celebrare per la prima volta l’Eucaristia, l’allora giovane parroco don Italo ricorda che visse un istante di sincera commozione. Don Valerio Crivelli, che gli era accanto e accompagnava il vescovo quale cerimoniere, lo invitò a trasformare quell’emozione in preghiera in segno di gratitudine per il nuovo altare che la comunità riceveva. «La nuova chiesa – ci confida don Italo – era anche segno di quel rinnovamento conciliare di cui sentivo gioiosamente di far parte».

Se don Oliviero Bernasconi ha avuto il compito di vicario generale della diocesi, don Meroni, don Pessina e don Piffaretti sono stati per alcuni anni e in tempi diversi vicari foranei nei rispettivi vicariati: Mendrisiotto (Piffaretti e quindi Pessina), Bellinzonese (Meroni). Una funzione affidata loro dal vescovo con il compito soprattutto di creare unità, scambio, dialogo, comunione, visioni pastorali comuni fra i preti del rispettivo vicariato. Esprimere riconoscenza a questi novantenni significa augurare loro un sereno cammino verso i cento, nella consapevolezza del bene compiuto nella diocesi di Lugano e nella gioia di continuare ad essere testimoni sinceri di quel Vangelo che sempre ha reso luminosa la loro strada.

14 Novembre 2020 | 07:16
Tempo di lettura: ca. 4 min.
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