Per una centralità autentica della Bibbia nella teologia e nella vita cristiane

di Sandro Vitalini *

In questa settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e in occasione della celebrazione della prima «domenica della Parola di Dio» mi paiono utili alcune riflessioni di carattere culturale e religioso per tutti. L’esegesi biblica in passato correva su di una strada parallela a quella della teologia, la quale si limitava a qualche vaga citazione per «provare» le sue tesi preconfezionate. Questo andazzo ha creato una strana mentalità: nel Nuovo Testamento sarebbero presenti solo dei «semi» di rivelazione, che la tradizione dei secoli successivi avrebbe esplicitato.

            Da molto tempo sono del parere che l’esegesi cristiana sia invece in grado di mostrarci come la comunità cristiana primitiva ha raccolto, con Maria e gli Apostoli, un deposito rivelato insorpassabile, al quale le generazioni successive dovranno rifarsi per nutrirsi della Parola di Dio. La Scrittura non ci offre cioè dei semi, ma un albero rigoglioso di frutti, frutti che verranno, almeno parzialmente conservati, dalla tradizione successiva, nella misura in cui affonderà le sue radici, la sua vita, nel deposito primigenio, mangiando i frutti dell’unica Vite (Gv 15,1ss).

            È curioso, per esempio, il caso dei dogmi mariologici dell’Immacolata e dell’Assunta, problematici nel dialogo ecumenico. Per fondarli teologicamente si arrampica sui vetri citando, magari, testi apocrifi tardivi, senza rendersi conto che la Scrittura li afferma, ma dicendo molto di più: tutti siamo infatti chiamati ad essere «santi e immacolati» (Ef 1,4) alla presenza del Padre, nell’Amore, come per tutti, quando è deposta la «tenda corporale» provvisoria, già è preparata dal Padre nei Cieli la dimora definitiva (cfr. 2Cor 5,1ss).

            La Scrittura non è un seme, ma un albero di frutti copiosi ai quali si è troppo scarsamente attinto. Anche la mutazione culturale intervenuta dopo la redazione dei testi neo-testamentari (da un pensiero ebraico in lingua ebraica e greca ad uno d’impostazione filosofica e giuridica prevalentemente greco-latina) ha contribuito ad allontanarci dal cuore del messaggio biblico.

Alla luce del Nuovo Testamento molte idee preconcette crollano. Si è ripetuto, ad esempio, che la figura di Maria è appena abbozzata negli scritti neo-testamentari per poi crescere nella comprensione teologica e raggiungere la pienezza con particolari definizioni dogmatiche. Ma se si sa leggere il «Magnificat» (cfr. Lc 1,46-55), ci si rende conto che esso costituisce una mariologia insorpassabile. La comunità primitiva ha sapientemente tolto tesserine dal Primo Testamento per presentarci la nuova arca dell’alleanza e il «compendio anticipato» del Vangelo: un mosaico di un valore ineguagliabile! Se vogliamo parlare della presenza reale del Cristo nell’eucarestia ci rendiamo conto che la dottrina scolastica della transustanziazione dice meno del cap. 6 del vangelo secondo Giovanni o del cap. 11 della prima lettera ai Corinti. Mentre nel Medioevo si circoscrive la riflessione sul cambiamento di natura del pane dopo le parole consacratorie, nel Nuovo Testamento si percepisce la presenza della carne e del sangue di Cristo in funzione della scelta di vita dei credenti che se ne cibano. Si tratta di una visione molto più globale che, con la perdita del senso esistenziale comunitario dell’eucarestia, si è affievolita. Si pensi all’importanza che si è data al potere di sciogliere e di legare conferito a Pietro (cfr. Mt 16,19) e agli apostoli (cfr. Gv 20,23). Si è dimenticato, però, che simile autorità è conferita da Cristo a tutti i suoi discepoli (cfr. Mt 18,18), che utilmente confessano anche tra loro i peccati (cfr. Gc 5,14). È una visione che responsabilizza al massimo ciascun individuo. Si pensi alla ricerca mirabile che gli autori biblici hanno compiuto per descrivere l’indescrivibile. Un esempio: il rapporto di consustanzialità tra il Padre e il Figlio, trattato a fondo dal prologo giovanneo o da quello della lettera agli ebrei. I termini di ipostasi o di sostanza hanno qui un significato diverso da quello della teologia scolastica, ma vanno inquadrati e capiti nella loro genialità. Il termine di «kyrios» ha una pregnanza non solo polemica, in opposizione all’imperatore, ma teologica, perché identifica in Gesù Signore l’adonai del Primo Testamento.             Sarebbe pertanto fuorviante immaginare che l’acquisizione della divinità del Figlio o quella della famiglia di Dio Padre rivelato e comunicato nello Spirito del Figlio sia influenzata da querelles posteriori che hanno portato a specifiche definizioni conciliari.

            Esiste certo un’esegesi dei testi «asettica», che prescinde dalla fede, e si situa solo a livello filosofico e semantico. Ma esiste anche un’esegesi che, non meno scientifica della prima, si accosta ai testi con lo spirito di coloro che li redassero, firmando spesso col sangue del martirio la loro testimonianza.

La teologia biblica finora non ha inciso molto sulla teologia dogmatica e morale. Il suo approfondimento dovrebbe portare ad impregnare così tanto queste discipline da far con loro una cosa sola. La storia dei dogmi e l’ecclesiologia rimarranno, ma il nocciolo della riflessione teologica dovrà essere l’esegesi cristiana dei testi ispirati. Sarà allora facile identificare la gerarchia tra le verità di fede: quelle già vissute e proclamate dalla comunità apostolica e quelle agganciatesi in seguito, spesso di scarso peso teologico. Il dialogo ecumenico ne potrà grandemente approfittare.

Ma è importante che gli esegeti cristiani escano da una torre d’avorio di un lavoro puramente scientifico e staccato dalla tradizione ecclesiale per occuparsi, in modo dichiaratamente esplicito, del patrimonio di fede veicolato dalla Chiesa, così da indicarne la profondità o meno del radicamento nella Scrittura. Temi di teologia dogmatica (quale quello della ordinabilità delle donne ai ministeri) o di teologia morale (quale quello della peccaminosità o meno della masturbazione) ricevono da un’attenta analisi scritturistica risposte nuove e dinamiche. L’annosa e dolorosa vicenda del limbo per i bambini morti senza battesimo non sarebbe stata nemmeno posta se ci si fosse riferiti ai testi neo-testamentari.

Ma non si riesuma così la tesi del «sola Scrittura»? Non si dimentichi che anche il Nuovo Testamento si situa nell’alveo della tradizione esistenziale vissuta dalla Chiesa (cfr., per es., 1Cor 11,23) e che l’unica preoccupazione della Chiesa dovrebbe essere quella di custodire il depositum fidei (cfr. 1Tm 6,20), offertoci dallo Spirito Santo (cfr. Gv 16,13-15). Ogni secolo corre il rischio di privarsi del nutrimento della Parola rivelata, sopraffatto da interessi mondani. Si pensi, per esempio, a quanto avvenuto in passato, in ordine alla legittimazione della guerra, alla schiavitù, alla potenza ecclesiale mondana superiore a tutti, alla vendita delle indulgenze, ai roghi per le cosiddette «streghe», alle stesse crociate, al tentativo di trasformare la struttura familiare e ierodulica della Chiesa in struttura di monarchia assoluta…

Negli antichi mosaici il Cristo appare al centro come figura grandiosa umana e divina, mentre coloro che lo circondano, papa e imperatore compresi, sono di struttura irrilevante. Di fronte alla Parola che è il Cristo siamo tutti suoi piccoli discepoli, all’ascolto di colui che П l’unico maestro, rivelatore dell’Uno Padre (cfr. Mt 23,9-10). Se alla teologia, dogmatica o morale che sia, viene a mancare l’umiltà dell’ascolto assiduo della Parola, viene a mancare l’anima, lo spirito. Ancora mezzo secolo fa si diceva nelle nostre sedi universitarie che l’oggetto studiato dalla teologia è «la rivelazione virtuale»: si voleva cioè estrapolare dal deposito rivelato ciò che in esso non era contenuto, ma che la ricerca razionale avrebbe progressivamente scoperto. Sotto il termine di «tradizione» viene così contrabbandata ogni tesi più strana: così si è parlato, per esempio, di Maria «corredentrice», di Giuseppe «concepito immacolato» e «assunto corporalmente in cielo».

Se invece ci mettiamo in ginocchio di fronte al Cristo – Parola viva, troviamo il criterio per avanzare nella conoscenza della verità che è Lui stesso (Gv 14,6). Il termine «tradizione» può essere un laccio per lo stesso magistero. Si è detto che Paolo VI, a proposito del problema della liceità o meno della contraccezione, abbia formato una commissione di 80 esperti, che si dissero favorevoli nella quasi totalità ad un intelligente controllo delle nascite. Solo un membro si sarebbe opposto, portando, tra l’altro, l’argomento della «tradizione», ossia il fatto che i papi in precedenza fossero stati negativi in proposito. Si è, però, dimenticato che in precedenza la nuova problematica era ignota e che pertanto bisognava riflettere su basi diverse (come si è fatto sulla questione del prestito con interesse). Se ci si sentisse legati a un passato quasi fosse cogente in ogni aspetto, non si sarebbe mai arrivati a denunciare, per esempio, l’intrinseca immoralità della guerra e della pena di morte. Per arrivare a decisioni coraggiose e anche dirompenti dobbiamo ricuperare il primato della Parola che è il Cristo, rivelazione definitiva e ultima (cfr. Ebr 1,1-3). Solo questo atteggiamento di umile ascolto da parte di tutti i cristiani realizzerà l’Unità tra loro voluta da Gesù. Più ci sottomettiamo alla Parola e più ci sentiamo piccoli, sorelle e fratelli tra noi, capaci di chiederci perdono reciprocamente e di camminare insieme, dandoci di nuovo la mano, sulla via di quell’Unità che è Cristo Signore stesso (cfr. Gv 15,4). Solo un ricupero della contemplazione della Parola rivelata può permettere alla Chiesa di ristabilire tra tutti i cristiani quell’Unità (nella diversità) che il Cristo ci impone per oggi (cfr. Gv 17,21) e che noi abbiamo infranto proprio per non aver seguito fedelmente la Parola incarnata, il Figlio di Dio, l’Unico nostro Pastore (cfr. Gv 10).

Chi è don Sandro Vitalini?

*L’autore, nato a Campione d’Italia il 27 febbraio 1935, cresciuto a Melide, consacrato presbitero nel 1959, è stato docente di teologia sistematica all’Università di Fribourg (Svizzera) dal 1968 al 1995, della cui Facoltà di Teologia è stato decano due volte. Ha presieduto la commissione teologica della Conferenza dei Vescovi Svizzeri. È stato pro-vicario generale della Diocesi di Lugano dal 2004 al 2014. Tra i suoi libri: Voglio dirti qualcosa di Dio, EDB, Bologna 2008; Dio soffre con noi? La meridiana, Molfetta (BA) 2009; Ma com’è Dio? Giuseppe Zois dialoga con Sandro Vitalini su TEMI SCOMODI del CREDERE, Fontana Edizioni, Pregassona 2010; La fede della vita, la vita della fede, Cittadella, Assisi (PG) 2017; (con E. Borghi-G. De Vecchi-L. Locatelli), Il peccato è originale?, Cittadella, Assisi (PG) 2018.

24 Gennaio 2020 | 08:38
Tempo di lettura: ca. 6 min.
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