Al centro: Fishel Rabinowitz.
Ticino e Grigionitaliano

L’olocausto nei ricordi di Fishel Rabinowitz: la sua testimonianza del 19 dicembre alla Scuola internazionale di Cadempino

Perdonare la brutalità no; farne oggetto di memoria sì. È questa la linea intrapresa da Fishel Rabinowitz, originario della Polonia, ma oggi residente in Ticino e uno delle poche vittime della Shoah rimasto in Svizzera. Ad ascoltare questa testimonianza, in un auditorio gremito, lo scorso 19 dicembre, gli allievi della Scuola internazionale di Cadempino, su invito della «Gamaraal Foundation», associazione che si occupa ad ora di tutelare e supportare – materialmente e psicologicamente – i sopravvissuti alla Shoah. Un incredibile testimonianza, franta da lunghi momenti di silenzio negli istanti più duri da rievocare, le mani che tremano, lo sguardo che si fa commosso: non ci sono molte parole da dire, davanti a una guerra che a Rabinowitz personalmente ha strappato ben 31 famigliari, costretti ai lavori forzati e poi deceduti nell’oblio. Destini di cui l’anziano, allora 20enne, viene a conoscenza solo in seguito, a guerra terminata, tramite i registri allestiti dai tedeschi stessi. Numeri e nomi sulla carta; volti e ricordi di ciò che Rabinowitz chiamava e continua a chiamare nel ricordo «famiglia». «L’antisemitismo esisteva da tanto tempo. Nemmeno la fine dei ghetti nell’Ottocento e l’indipendenza guadagnata aveva potuto mettere a tacere l’odio verso gli ebrei; anzi è da quel momento che si è iniziato a invidiarli per aver ottenuto come tutti la cittadinanza. Il Nazismo ha cavalcato l’onda, dopo che piani di sterminio e violenze con gli ebrei erano già stati portati avanti in Russia e Romania, ad esempio. Ma presto divenimmo un capro espiatorio: ci accusarono di esserci arricchiti, stando a casa e non lottando, durante la prima guerra mondiale e di essere pronti a darne avvio a una nuova. Il risultato? Una nuova guerra, milioni di ebrei morti e una vera e propria rottura della civiltà», sottolinea l’anziano. Rabinowitz viene deportato quattro giorni dopo l’inizio dei combattimenti. E ricorda tutto: «Il mio numero – eravamo numeri non più persone – era il 19037. Dovevamo dividerci tra camerati una sola pagnotta in quattro, 1 cucchiaio di marmellata e 20 grammi di margarina. La razione condivisa doveva bastare per tutto il giorno. Solo la domenica avevamo diritto a un paio di patate bollite. Poi dal ’43 le cose sono ulteriormente peggiorate: praticamente non ci davano più nulla se non una minestra della consistenza dell’acqua». La morte, compagna di viaggio, si fece tuttavia particolarmente sentire per Rabinowitz durante una micidiale Todesmarsch, «marcia della morte», appunto, messa in atto dai nazisti anzitutto per mettere alla prova i detenuti: «Vidi il mio compagno di gruppo cedere davanti ai miei occhi per lo sfinimento. Mi dissero che sarebbero passati a prenderlo con un carro. Due ore dopo, dal fondo, udimmo degli spari: lo avevano ucciso come tutti coloro che non avevano avuto le forze di avanzare. Durante la stessa marcia vidi da lontano cadere sotto la furia dei bombardamenti la città di Dresda: fu terribile, persino il fiume che la costeggiava sembrava aver preso fuoco». La liberazione di Rabinowitz avviene alla fine del conflitto. «Gli americani mi diedero subito tanto cibo che stetti male. Pesavo 28 chili, e avevo solo 20 anni». Di fronte a tanto orrore, cosa dire dunque alle nuove generazioni? «Non dimenticate e leggete, leggete tanto e informatevi, non con i cellulari alla mano ma, ad esempio, con Primo Levi sott’occhio. Diverse ingiustizie impallidiscono ma l’olocausto con la sua irrazionalità non può essere dimenticato».

Per ulteriori informazioni sulla fondazione «Gamaraal»: www.gamaraal.com

(LQ)

Al centro: Fishel Rabinowitz.
20 Dicembre 2022 | 19:22
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